Commento alla liturgia della Parola tempo di Quaresima

«CONVERTITEVI E CREDETE AL VANGELO
La fisionomia di questo giorno è presto delineata: apre il tempo quaresimale, si caratterizza per il rito delle ceneri.
Partiamo da quest’ultimo: che significa un po’ di polvere sul capo di ciascuno? Due cose, essenzialmente espresse alle due formule alternative che l’accompagnano.
a) “Ricordati che sei polvere e in polvere tornerai”. La vita è breve e svanisce come un sogno. D’altronde il tempo è prezioso perché è lo spazio in cui ci costruiamo il destino eterno. Quindi, va utilizzato con alacrità. E alle cose che passano non bisogna aggrapparsi; Paolo dice di servircene “come se non ce ne servissimo, perché il tempo è breve” (cfr. 1 Cor 7,31);
b) “Convertitevi e credete al vangelo”. È un appello pressante che, come uno squillo di tromba, attraversa tutta la liturgia. E occorre farlo subito, perché «questo è il momento favorevole… e il giorno della salvezza» (II). Si tratta di questi quaranta giorni (“quaresima”) che Dio ci offre come uno spazio di grazia per “cambiare vita” (è il senso prevalente di “conversione”) e così arrivare con cuore purificato a celebrare la Pasqua. Non devono passare invano; non devo frustrare questa divina iniziativa. Ora il Signore mi chiama: e se poi tacesse? Ora bussa alla porta: e se non tornasse?
Le componenti maggiori di questo appello, come si rilevano dai testi, sono le seguenti.
“Invito al pentimento”: devo rientrare in me stesso, vedere coraggiosamente quello che non va e condannarlo, e gridare al Signore: “ho peccato… abbi pietà” (Salmo resp.).
“Invito all’interiorità”: bisogna partire dal cuore per cambiare la vita. Se non cambia il cuore non cambia nulla. “Fate a pezzi i vostri cuori non le vostre vesti”. Naturalmente una volta mutati gli atteggiamenti interiori cambia anche la condotta esterna. Cambia tutto l’uomo (I).
“Appello all’autenticità” essa è il contrario del formalismo e dell’ostentazione che erano tipiche dei farisei, e continuano a dominare nel mondo. Bisogna fare “cose vere”: vere perché sgorgano dal cuore. Questo vale anzitutto per i tre impegni quaresimali: preghiera, digiuno, opere di carità. Vanno compiute “sotto lo sguardo del Padre che vede nel segreto” e non per essere visti dagli uomini (III e Obl).
“Appello alla riconciliazione: “riconciliatevi con Dio” (II), Apritevi cioè a un nuovo rapporto di comunione con Lui. Chi ci ha riconciliati è stato il sangue di Gesù: ma bisogna accogliere in sé la grazia e la potenza di quel sangue.
“Appello a un impegno ascetico esigente”: è quel complesso di privazioni volontariamente abbracciate che ci rendono più forti nella lotta contro lo spirito del male (Coll), ci aiutano a vincere il nostro egoismo, che ci chiude tristemente in noi stessi (Obl), guariscono le ferite interiori inferte dal peccato (Post com.) e aprono così la strada a un profondo rinnovamento, a “una vita rinnovata a immagine del Signore Risorto” (Oraz. sulle ceneri)» (MAGRASSI MARIANO, Lampada per i miei passi è la tua Parola. Commento alle letture e alle orazioni festive, Ecumenica Editrice, Bari 1997, pp. 97-98).

«Giovedì dopo le Ceneri – Prendi la tua croce!
(Lc 9,22-25; cf Mt 10,39)

“Il Figlio dell’uomo dovrà molto soffrire”.
L’esperienza ci insegna che ogni opera buona costa fatica. È difficile farsene una ragione, ma è così. La storia offre moltissimi esempi di questo; artisti, scienziati, politici onesti hanno fatto fare un progresso all’umanità con la loro opera solo a prezzo di tanta sofferenza e incomprensione. Per Cristo come uomo è stato lo stesso.
La sofferenza dei benefattori dell’umanità ha una spiegazione psicologica. In natura vige la legge della conservazione, e anche la società umana tende a questo. L’opinione pubblica è come la corrente di un fiume che trascina tutti nella stessa direzione. Fermare un carro in movimento e cambiare il senso di rotazione della ruota non può che essere duro. Il senso della sofferenza di Cristo è molto più profondo, ma l’esperienza del dolore umano ci dà la chiave per comprenderlo.
Il coraggio è una virtù. Non bisogna temere le difficoltà! Le famiglie sane educano i bambini a non avere paura. Un bambino a cui viene insegnato il coraggio ha ricevuto un grande dono per la vita.
Sulla cima della montagna arriva solo chi non teme la pioggia e il vento contrario.

“Ogni giorno prendi la tua croce!”
Scrive un poeta ceco: è debole solo chi ha perduto la fiducia in se stesso, ed è piccolo solo chi si pone una piccola mèta. Sono parole edificanti, ma un po’ troppo ottimiste. Ogni giorno ci tocca affrontare mille difficoltà e, se cerchiamo l’ideale, sono tanti ostacoli che incontriamo per realizzarlo. Si dice che la pazienza sia la virtù dei santi. Ma la vita mette alla prova la pazienza di qualsiasi persona.
La pazienza è la virtù che ci fa riconciliare con il male che non possiamo impedire. Abbiamo fretta ma il tram non arriva, siamo stanchi morti e un giovanotto baldo e forte se ne resta seduto al suo posto, mentre l’autobus ci sballotta qua e là e rischiamo di cadere. Vorremmo conversare con un amico, ma è di pessimo umore. Non ci resta che esercitare la pazienza. Qualche volta ci sembra di doverne avere troppa, nella malattia, nel dolore di una perdita, nelle incomprensioni familiari, nel lavoro. Sorge la tentazione di gettare la croce e fuggire lontano.
Ma noi cristiani abbiamo un doppio aiuto. La promessa che Dio non ci imporrà una croce più pesante di quella che possiamo portare. La promessa che nelle difficoltà Dio ci dà un aiuto speciale.

“Seguimi”

In un canto natalizio inglese si racconta del re san Venceslao che a piedi nudi porta l’elemosina ai poveri. Il paggio che lo segue si lamenta del freddo, allora il santo gli dice di mettere i piedi nelle sue orme. Succede il miracolo: i piedi del paggio si scaldano.
In forma leggendaria, è il racconto dell’esperienza vissuta dai santi. La coscienza di seguire Cristo alleggerisce il peso delle difficoltà, anche delle sofferenze gravi e del martirio. Del resto anche noi siamo psicologicamente aiutati se qualcuno che ci ama soffre con noi. Ma nel nostro caso non si tratta solo di consolazione psicologica. Chi segue Cristo entra nel suo modo di pensare e nella sua vita e Cristo entra nella sua anima. Chi segue Cristo comincia a comprendere il senso positivo della sofferenza e riceve la grazia divina di portare la sua croce insieme con il Salvatore del mondo. Farà così esperienza di una frase popolare: pesante non è la croce che Dio ci manda, ma solo quella che ci prepariamo da soli» (TOMÁŠ ŠPIDLÍK, Il Vangelo di ogni giorno. Riflessioni sul vangelo feriale. II. Tempo di Quaresima e Pasqua, Lipa, Roma 2001, pp. 13-15).

«Venerdì dopo le Ceneri – Dominare la gola
(Mt 9,14-15)

Noi e i farisei digiuniamo
Anche i medici dicono che mangiare troppo fa male alla salute. Forse oggi sono loro gli unici a rammentarsi dell’antico consiglio della Chiesa: digiunare. Ai malati i medici prescrivono talvolta diete severissime. Non si tratta solo di dominarsi nel mangiare, ma nel bere, nel fumare, nell’astenersi dalle droghe. Goloso è chi si fa vincere dall’avidità in tutte queste cose, e chi usa del creato in modo rapace.
Per san Giovanni Climaco la gola è “l’ipocrisia dello stomaco che si lamenta di essere vuoto anche quando è riempito fino all’orlo”. Riempirsi lo stomaco forse nutre il corpo, ma anche gli istinti carnali. Siamo sicuri di poterli dominare?

San Giovanni e i suoi discepoli digiunavano
Per gli autori spirituali, non riuscire a dominarsi nel mangiare è segno di una volontà debole. Simbolicamente si può dire che il goloso vende il diritto di primogenitura nel regno di Dio per un piatto di lenticchie (Gen 25,29ss).
Il digiuno per un cristiano è l’occasione per testimoniare la forza dello spirito. Non è credibile che uno parli di vita spirituale e poi si faccia giocare dalla gola. Scrive ancora san Giovanni Climaco: “Mangiare troppo eccita la sensualità, digiunare stimola la castità. Se accarezzi un leone, può darsi che si ammansisca, ma il corpo, più gli concedi, più diventa una bestia selvaggia”.

Non possono essere tristi gli invitati alle nozze
La prescrizione del digiuno sembra negare il diritto di mangiar bene e il piacere della tavola. È un diritto lecito. Siamo al mondo anche per essere contenti e stare allegri con gli amici. Il digiuno in sé non è una virtù, ma un mezzo per acquistare la virtù, un allenamento al dominio di sé. Un mezzo ha un valore relativo, serve in quanto conduce al bene.
Uno staretz russo che osservava severamente i digiuni prescritti dal monastero, una sera fu sorpreso nella sua cella che mangiava una buona cena con un confratello. Nessuno osò riprenderlo, e lui stesso spiegò la sua condotta. Il confratello era tornato triste e abbattuto da un lungo viaggio e, disse lo staretz, “l’amore è più del digiuno”» (TOMÁŠ ŠPIDLÍK, Il Vangelo di ogni giorno. Riflessioni sul vangelo feriale. II. Tempo di Quaresima e Pasqua, Lipa, Roma 2001, pp. 15-16).

«Sabato dopo le Ceneri – La cena coi peccatori
(Lc 5,27-32)

Levi gli preparò un grande banchetto

Nella vita festeggiamo molte cose con una cena, la conclusione di un’opera portata a termine o l’inizio di un nuovo periodo della vita. L’esempio classico sono le nozze. Ma può essere anche il ritorno da un viaggio avventuroso, dall’ospedale, dalla guerra. Levi organizza un grande banchetto perché si è convertito a una nuova vita, decidendo di seguire Gesù. La cosa strana è che qui la cena fa parte della sua penitenza.
La parola “penitenza” suona male nella società di oggi. Il sacramento della riconciliazione sembra solo una spiacevole confessione dei peccati: dobbiamo ricordarci di ciò che vorremmo dimenticare.
Riconoscere d’avere sbagliato e la decisione di correggersi è al contrario uno dei momenti più gioiosi della vita. C’è in noi la forza dello Spirito Santo che ci dà la vita eterna.
Non scoraggiamoci perché confessando sempre le stesse mancanze non osserviamo nessun miglioramento. Il fatto stesso che, dopo tante cadute, siamo sempre capaci di risorgere, è già una lieta notizia per la vita in Dio.

I sani non banno bisogno del medico

Nel medioevo si discuteva molto se la vera Chiesa era visibile o invisibile. Perché perdersi in una discussione così inutile? Si chiede la gente di oggi.
Ma non era una questione puramente teorica. La Chiesa visibile sono i cattolici con i quali siamo in contatto: laici, sacerdoti, vescovi, il papa. Ebbene, non sono tutti angeli. Nella Chiesa ci sono tanti difetti, malizie, malvagità. Sorge allora la questione: perché i cattivi non vengono esclusi dalla Chiesa? Le eresie medievali risolvevano il problema considerando membri della Chiesa solo i veri cristiani. Esiste la cosiddetta “scomunica”, la proibizione dell’accesso ai sacramenti, ma essa non è esclusione dalla Chiesa.
Un ospedale o un sanatorio non vengono costruiti per escludere i malati, ma per accoglierli e curarli. Così sulla terra è la Chiesa per i peccatori.

Perché mangiate e bevete con i peccatori?

La frequentazione di ubriaconi e malvissuti non procura buona fama. Durante la guerra, chi collaborava con il nemico rischiava di essere condannato dal tribunale. Gli Ebrei osservanti erano ancora piú severi, e reputavano impurità anche il contatto sociale con quelli che non osservavano la legge di Dio.
I buoni cristiani devono guardarsi allo stesso modo dalle cattive compagnie? Nella Chiesa esiste la clausura, che protegge i religiosi dal contatto con l’esterno, e ai preti è interdetta la frequentazione di certi luoghi. Che coerenza c’è fra queste misure di restrizione e la condotta di Gesù nel Vangelo?
A questa domanda ha già risposto uno dei principali legislatori della vita monastica, san Basilio. Fra un cristiano che fa i primi passi sulla via della conversione e un altro che è già fortificato sul cammino del bene, c’è la stessa differenza che passa fra una giovane pianta e un vecchio albero. I deboli stiano attenti agli amici che si scelgono. I forti nella fede vadano in mezzo alla gente a donare il loro tesoro”» (TOMÁŠ ŠPIDLÍK, Il Vangelo di ogni giorno. Riflessioni sul vangelo feriale. II. Tempo di Quaresima e Pasqua, Lipa, Roma 2001, pp. 17-18).

COMMENTI

«Infine, occorre qui rammentare, in modo particolare, la grande parabola del Giudizio finale (cfr Mt 25, 31-46), in cui l’amore diviene il criterio per la decisione definitiva sul valore o il disvalore di una vita umana. Gesù si identifica con i bisognosi: affamati, assetati, forestieri, nudi, malati, carcerati. “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 40). Amore di Dio e amore del prossimo si fondono insieme: nel più piccolo incontriamo Gesù stesso e in Gesù incontriamo Dio» (Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus caritas est, 25 dicembre 2005, n. 15

«La scena è grandiosa: Gesù, nella funzione regale, è seduto sul trono con «tutti i suoi angeli». Davanti a lui, come in un immenso scenario, sono raccolte «tutte le genti». Tutti: cristiani e non cristiani, credenti e non credenti. C’è una sola divisione tra loro: il rapporto che ognuno ha avuto con il Figlio dell’uomo che è presente in ogni povero. Il giudice stesso, infatti, si presenta come l’assetato, l’affamato, il nudo, lo straniero, il malato, il carcerato. «Ebbi fame e mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da bere». Il dialogo tra il Re e gli interlocutori dei due gruppi mette a fuoco questo aspetto sconcertante: il giudice glorioso della fine dei tempi, che tutti gli interlocutori riconoscono come Signore, aveva il volto di quel barbone che chiedeva l’elemosina lungo i marciapiedi delle nostre città, di quell’anziano sbattuto nel cronicario, di quegli stranieri che bussano alle nostre porte, e così oltre. L’elenco potrebbe essere prolungato da ognuno di noi, magari solo descrivendo gli incontri che ci capitano lungo una giornata. La monotona ripetizione delle sei situazioni di povertà (si ripetono per ben quattro volte, in pochi versetti), con il rispettivo elenco delle opere prestate o negate, sta forse a indicare il frequente ripetersi di tali situazioni nella vita di ogni giorno. Questo Vangelo viene a dirci che il confronto decisivo (decisivo perché su questo saremo giudicati in maniera definitiva) tra l’uomo e Dio non avviene in una cornice di gesti eroici e straordinari, bensì negli incontri di tutti i giorni, nel porgere aiuto a chi ne ha bisogno, nel dare da mangiare e da bere a chi ha fame e a chi ha sete, nell’accogliere e proteggere chi è abbandonato. L’identificazione di Gesù con i poveri – li chiama anche suoi fratelli – non dipende dalle loro qualità morali o spirituali; Gesù non si identifica solo con i poveri buoni e onesti. È un’identità oggettiva; essi sono il Signore perché poveri» (Vincenzo Paglia, 26-2-2007).

 

«O Signore, rendi il mio cuore simile al tuo! Che io trovi pace solo nel donarmi, che io mi senta ricco solo condividendo il poco o molto che ho. Fammi diventare amore, fammi diventare misericordia. Fammi essere come te: amore puro, attento, preveniente e provvidente, senza misura e senza calcolo» (Antonio Colombino, La santità nella carità, in Messa meditazione 2023, gennaio-febbraio, p. 445).

«Il “Padre nostro” occupa il centro del discorso della montagna, quasi a darci “la sintesi di tutto il Vangelo” (Tertulliano). La prima parola è abbà (papà). Gesù compie una vera e propria rivoluzione religiosa rispetto alla tradizione ebraica di non nominare neppure il nome santo di Dio, e con questa preghiera ci coinvolge nella sua stessa intimità con il Padre. Non è che abbassa Dio; piuttosto siamo noi innalzati a Dio che sta nei cieli. Egli resta il totalmente altro che tuttavia ci abbraccia. È giusto fare la Sua volontà e chiedere che venga presto il regno, ossia il tempo definitivo nel quale sarà finalmente riconosciuta la santità di Dio. La seconda parte della preghiera riguarda la vita quotidiana. Gesù esorta a chiedere il pane, quello di ogni giorno, per farci toccare con mano la concretezza dell’amore di Dio. E poi pone sulle nostre labbra una grave richiesta: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Appare duro e irrealistico ammettere che il perdono umano sia modello (così come noi) di quello divino, ma nei versetti seguenti questa petizione trova una spiegazione: “Se avrete rimesso agli uomini le loro mancanze, rimetterà anche a voi il Padre che è nei cieli. Qualora non rimetterete agli uomini, neppure il Padre vostro che è nei cieli rimetterà le vostre mancanze”. Questo linguaggio è incomprensibile per una società, come la nostra, nella quale il perdono è davvero raro. Ma forse proprio per questo abbiamo ancor più bisogno di imparare a pregare con il Padre nostro» (Vincenzo Paglia, 28 febbraio 2012).

«Ci chiediamo cosa significa chiamare Dio col termine di “Padre”. Guarderemo a Gesù e conseguentemente a noi. Col nome di Padre si sottolinea anzitutto l’amore di Dio. L’esperienza di Gesù nei confronti del Padre è stata un’esperienza d’amore. Questo l’ha portato a riconoscere l’origine che l’ha preceduto. All’inizio della nostra vita, quindi, non c’è il caso o un’oscura necessità, ma una Volontà amante che pensa, desidera e, nella sua infinita fantasia, crea. E se è vero che “al principio” c’è questo “Tu”, è altrettanto vero che questo medesimo “Tu” accompagna l’uomo verso la sua pienezza. Padre, dicevano i rabbini, non è solo chi genera, ma chi educa. Dire “Padre” significa anche confessare la sua misericordia e il suo perdono. Sulla gratuità di questo amore smisurato abbiamo delle pagine straordinarie, ad esempio, nel profeta Osea. Dio dichiara di aver amato Israele nel passato, tanto da sollevarlo alla sua guancia con infinita tenerezza come un padre solleva il suo bambino (cf. Os 11,4). Dichiara anche di amarlo nel presente nonostante l’ostinata infedeltà (cf. 3,1). A livello quotidiano, allora, credere che Dio è Padre comporta adottare una certa prassi, ovvero significa fare della paternità un simbolo di amore universale. Amore ricevuto e dato. Al di fuori di questo orizzonte non c’è ragione sufficiente per cui si debba amare gli uomini come fratelli. Dire “Padre”, ancora, è ricorrere a un simbolo di fiducia, di confidenza, come suggerisce spesso Gesù (cf. Mt 6,32, ad esempio). La confidenza ha caratterizzato la vita del Maestro in modo esemplare. Pensiamo solo all’ora della sua passione. Scrive Matteo: “Ha confidato in Dio”, dicono gli avversari mentre è sulla croce: “Lo liberi lui, ora, se gli vuol bene” (27,43) Matteo usa qui il verbo peitho, un verbo che esprime confidenza e obbedienza allo stesso istante Nel testo greco è al perfetto, per evidenziare la continuità: Gesù in tutta la sua vita, e non solo nella passione, ha avuto fiducia nel Padre. Egli muore come è vissuto, ma scaviamo ulteriormente. Confidare significa porsi nelle mani di un altro, è un gesto di dipendenza. Come dire: per la mia vita dipendo da te, mi determino, mi affermo a partire da te. Nell’esistenza di Gesù non c’è mai stato un momento in cui egli abbia ricercato la propria autoaffermazione. Il Padre era il suo Oriente, il riferimento primario. In questo ha espresso tutta la sua dimensione filiale. Un’ultima cosa: dire Padre è ricorrere anche a un simbolo di gratuità e uguaglianza. È quanto troviamo in Mt 23,1-12 Questo testo, che ben completa il brano proposto dalla liturgia odierna, risponde a una domanda fondamentale: da dove si riconosce un vero discepolo di Cristo? Nei vv. 1-7 abbiamo la caricatura del discepolo nella figura del fariseo, mentre nei vv. 8-12 abbiamo i lineamenti del vero discepolo Se il fariseo è preso da se stesso, dal suo amor proprio, il discepolo di Cristo riconosce un solo Padre (Dio) e un solo maestro (Gesù). Questo duplice riconoscimento crea nuovi rapporti tra i credenti, che a loro volta si riconoscono figli, fratelli e discepoli.
Quanto ci ami, Padre, donando a noi continuamente il tuo unico Figlio! Quanto ci ami! Ce lo doni avvolgendolo nelle vesti della nostra miseria per rivestire noi della tua gloria. Insegnaci a chiamarti Padre, e a manifestarti la nostra fiducia riconoscente e filiale!» (Sandro Carotta, Messa e preghiera quotidiana, febbraio 2016, pp. 169-171).


«Lettura

Dopo aver parlato della sincerità della preghiera, Gesù pone l’accento sull’importanza della fiducia in contrapposizione all’atteggiamento sbagliato e falso dei farisei. Il Padre nostro matteano è articolato in due strofe: dopo l’invocazione iniziale ci sono tre richieste scandite dall’aggettivo possessivo “tuo”, a seguire quattro domande poste in seconda persona singolare. Al termine della preghiera troviamo due “detti” che rimarcano l’importanza del perdono per essere esauditi: per ottenere il perdono divino è necessario perdonare i fratelli.

Meditazione

Non ha voluto insegnarci una preghiera da recitare ogni giorno né tanto meno un’invocazione da dire quando ci mancano le parole. Non sono parole da imparare a memoria e neanche espressioni da utilizzare nel momento del bisogno. Gesù insegna un nuovo modo di comunicare e relazionarsi con Dio partendo dalla prospettiva degli ultimi. Ce lo ha detto tante volte: ai ricchi che gettavano molte monete nel tesoro del Tempio ha preferito una povera vedova che metteva pochi spiccioli, al fariseo che pregava stando in prima fila ha preferito il pubblicano in ultima, a Marta tutta indaffarata nel preparare ha preferito l’atteggiamento di silenzio e ascolto di Maria. Oggi ce lo ripete: alle tante parole dei pagani preferisce guardare il cuore dell’uomo. Un cuore da figlio bisognoso dell’affetto di un Padre. Un cuore che sente il desiderio di continue attenzioni perché conosce la debolezza, la stanchezza e il limite. Un cuore che per decidere ha bisogno di confrontare la propria vita con la volontà dell’altro. Un cuore che impara – di volta in volta – a conoscersi, a dire ad alta voce ciò che è nascosto, ciò di cui si vergogna. Un cuore che si guarda intorno e scopre di non essere solo, ma è circondato di bellezze che possono salvarlo. E impara a lodare e a ringraziare. Il Padre nostro fa questo effetto! Se imparassimo davvero a pregare come ce l’ha insegnato Gesù, tutto sarebbe diverso. Tutto prenderebbe un’altra forma nella nostra vita. Il modo di pregare che Gesù ci invita a vivere fa bene all’uomo. Non è per Dio: Lui “sa di quali cose abbiamo bisogno prima che gliele chiediamo”. Ce lo ricorda il Prefazio comune IV: “Tu non hai bisogno della nostra lode, ma per un dono del tuo amore ci chiami a renderti grazie; i nostri inni di benedizione non accrescono la tua grandezza, ma ci ottengono la grazia che ci salva”. Dovremmo imparare a vivere così!

Preghiera

“Gesù, fa’ che il suono della tua voce riecheggi sempre nelle orecchie, perché io impari a capire come il mio cuore, la mia mente e la mia anima, ti possano amare… Gesù, vieni nel mio cuore, prega con me, prega in me, perché io impari da te a pregare” (santa Teresa di Calcutta)»(Riccardo Taccardi, La preghiera che ci cambia, in Messa e meditazione 20 (2020) marzo, pp. 51-52).

«Il brano evangelico si apre con la vera beatitudine del discepolo: «Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano». La prima che ha vissuto questa beatitudine è stata Maria, la madre di Gesù. Ella per prima ha accolto, custodito e messo in pratica la Parola di Dio, vero fondamento della vita dei discepoli e della stessa convivenza tra gli uomini. Tanti, oggi, cercano la sicurezza e la tranquillità in segni prodigiosi o miracoli. È vero del resto che le grandi città di oggi – simili alla grande Ninive – hanno reso difficile la vita. L’esistenza è diventata più dura e più violenta, soprattutto per i più poveri. Non di rado i ritmi convulsi delle nostre città sono fonte di squilibri fisici e mentali, di povertà e di emarginazione, di disperazione e di angoscia. Per questo si cerca qualcosa di prodigioso in cui confidare. In verità, c’è bisogno che le strade e le piazze delle nostre città siano traversate di nuovo dalla predicazione del Vangelo, come fece Giona che predicò la penitenza a Ninive. Ed il Vangelo è ben più prezioso della sapienza di Salomone e ben più forte della predicazione di Giona. Per questo la Parola di Dio non può restare nascosta; essa deve risplendere e dare luce agli uomini. I cristiani debbono essere i lucernieri del Vangelo» (Vincenzo Paglia, 29 febbraio 2012).

 

 

«Occorre uscire dalla nostra superficialità. Siamo spesso banali. La presenza di Dio accanto a noi è discreta ma efficace. Eppure siamo continuamente alla ricerca di segni straordinari perché non ci rendiamo conto del dono di Dio nella nostra dimensione feriale: nel lavoro, negli affetti, negli impegni familiari. Ci sentiamo abbandonati perché non ci fidiamo di Dio; stentiamo a credere che non ci abbandona neppure quando siamo deludenti e contraddittori. Abbiamo la tentazione di costruirci un Dio a nostra immagine, dimenticando che noi siamo l’immagine di Dio. Dio si rivela, si fa visibile nell’uomo, nella storia, nell’amore che vince il mondo. Siamo impastati di materialismo, che ci rende impossibile accorgerci dell’Amore che non delude, della Provvidenza che ci sostiene, della misericordia che ci salva. Mortificando il corpo con l’astinenza si rinnovi il nostro spirito con frutti di opere buone. Una Chiesa poco disponibile alla profezia non riesce a mostrare la Presenza di Dio».

«Gesù mostra cosa vuol dire portare a compimento la legge: cogliere in essa il pensiero e il cuore stesso di Dio. La giustizia, pertanto, non consiste in un egualitarismo esteriore, peraltro impossibile, ma nell’amore senza limiti che Dio ha per i suoi figli. Aggiunge, infatti, con una severa ammonizione: «Se la vostra giustizia non sorpasserà quella degli scribi e farisei, non entrerete nel regno dei cieli». Esser buoni alla pari dei farisei, vuol dire Gesù, vale lo stesso che esserlo per nulla. E lo spiega. Le parole che seguono nessuno ha mai osato dirle come le ha dette Gesù e nessuno le ha udite da altro luogo se non dal Vangelo. Il primo tema è tratto dal quinto comandamento: «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai … io, invece, vi dico: chiunque s’adira con il suo fratello sarà sottoposto al giudizio». Gesù non propone una nuova casistica (con l’aggiunta delle altre due scansioni: chi dice stupido e pazzo al proprio fratello) o una nuova prassi giuridica, bensì un nuovo modo di intendere i rapporti tra gli uomini. Gesù afferma che l’amore è il compimento della legge. Occorre, quindi, passare da un precetto in negativo alla positività dell’amicizia. L’amore ha un valore così alto da richiedere, se manca, l’interruzione dell’atto supremo del culto. La misericordia vale più del sacrificio; il culto, come relazione con Dio, non può prescindere da un rapporto d’amore con gli uomini» (Vincenzo Paglia, 10-3-2006).

 


Mt 5,20-26 Avete inteso che fu detto…ma io vi dico

Il coraggio di cambiare ci riscatta dalla tentazione dell’ipocrisia, che è incombente anche tra i cristiani. La Geenna era il luogo delle immondizie in Gerusalemme antica. Vi è un’assuefazione al malcostume, che vanifica anche nei migliori l’eroismo necessario per chiamare le cose con il loro nome. Il precetto della Genesi sul nome delle cose per essere praticato richiede in noi il desiderio di esprimere un’umanità forte, bella. Porta con sé anche il rifiuto della mediocrità, come misura della nostra voglia di verità e di giustizia. Prepararsi interiormente alla Pasqua vuol dire ritrovare il comune impegno nella mortificazione corporale, perché porti un vero rinnovamento dello spirito. La libertà senza dominio di sé è illusione. I cristiani, da sempre sanno che per cambiare il mondo occorre cambiare se stessi.

 

«Gesù qui non parla solo di un’intenzione di riconciliarsi e neppure di tentativi, gesti più o meno significativi di riconciliazione, ma parla di una riconciliazione effettiva. Mi obbliga ad assicurarmi che non solo io non abbia più nulla contro il fratello, ma che anche lui non abbia più nulla contro di me; che veramente abbia capito che tutto è superato, che veramente si senta compreso, stimato, amato. Solo allora, non prima, potrò essere sicuro che anche Dio accetta quello che gli dono; se il fratello ancora non mi sorride, non posso essere sicuro che mi sorrida anche Dio. L’ipotesi che la riconciliazione fallisca per colpa dell’altro – quell’ipotesi che proprio nel caso di Gesù è divenuta tragica realtà – Gesù qui non la vuole prendere in considerazione; essa potrebbe diventare per me un alibi troppo comodo. Ma chi di noi può dire di aver fatto proprio tutto? Gesù ci invita a cercare ancora, a sforzarci ancora di vedere se c’è qualche altra cosa da fare» (Vittorio Fusco, in Dall’alba al tramonto 15, 1996, 2, p. 3).

 

«Gesù continua a indicare la vera via della felicità e della pace. Pronuncia delle parole mai dette da nessuno: “Amate i vostri nemici, e fate del bene a coloro che vi odiano”. Sono parole davvero estranee alla cultura di questo mondo e, per questo, anche sbeffeggiate. Si dice anche che sono affermazioni belle ma non certo realistiche. Eppure, solo in queste parole il mondo può trovare salvezza, motivi per bloccare le guerre e, soprattutto, impulso a costruire la pace e la convivenza tra gli uomini e tra i popoli. Per Gesù non ci sono più nemici da odiare e da combattere. Per lui – e quindi per ogni discepolo – ci sono solo fratelli e sorelle da amare, semmai da correggere, e comunque sempre da aiutare nel cammino della salvezza. Dio, per primo, si comporta con misericordia e benevolenza verso tutti, anche verso gli ingrati e i malvagi. E Gesù presenta ai discepoli di ogni tempo un ideale che è alto come il cielo: “Siate misericordiosi, com’è misericordioso il Padre vostro”. Non è un’esortazione morale; è uno stile di vita. Da questo dipende la nostra stessa salvezza » (VINCENZO PAGLIA, 5-3-2007).

«Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini». Non “molte” delle loro opere ma proprio “tutte”.

In un’epoca assillata dal “look”, dall’ “audience” e dai “like” possiamo capire il rischio di deteriorare la vita umana e la sua nobiltà in un allestimento da apprezzamento. Possiamo, come non mai, intender bene come succeda che perfino chi è chiamato a servire il Signore della gloria, degeneri fino a trasformarsi in uno schiavo della gloria insulsa che usa anche le cose più sacre come “app” del proprio ego, entrando così in uno stato drammatico di scissione personale, una sorta di divorzio fra ciò che si professa e ciò che si vive, fra il dire e il fare, un saper parlare di cose sublimi e un non saperle praticare, una condizione assurda come quella di chi descriva entusiasticamente un posto dove non è mai stato, dove non sa andare e neanche mai andrà.
Questa condizione non è né insolita né nuova. Tale emiplegia della vita cristiana è sempre stata una patologia ecclesiale tutt’altro che rara, è una diffusa povertà umana che sgorga dall’illusione di possedere la realtà mediante le parole, le chiacchere, quando il saper parlare delle cose diventa credere di averle sperimentate e magari autorizza addirittura a insegnarle agli altri, un saper bene la teoria come approccio sufficiente alla realtà.
Come può succedere questa cosa? Come può essere trasformata in una cosa tanto brutta e ingannevole quella che invece parte come la chiamata meravigliosa a essere strumenti di Dio e della sua salvezza? Il Signore ci mette sulle tracce del contrario di questa vita assurda con quel “Ma voi…” e parla di una vita da discepoli, da fratelli e, soprattutto, da figli. Questo è un dato importante: chi di noi non deve sentirsi toccato da quel rischio di “dire e non fare”? Chi è privo di questo difetto? Esso è la patologia di ogni matrimonio, il quale si fonda su parole meravigliose dette nel giorno delle nozze, parole poi svilite, dimenticate, non più credute e praticate, così come tale è la patologia di ogni consacrazione, che sgorga da parole sublimi professate un giorno davanti a un vescovo, e poi spesso trascurate, addomesticate, alterate in un tran tran di banalizzazioni e di compromessi, spesso non fatti consapevolmente, ma lasciati accadere.
Per salvarci da questa trasandatezza occorre ritrovare la radice di quella integrità auspicata fra le righe di questo Vangelo, ed essa è nel Padre, che ci rende figli e quindi fratelli, e nel vero Maestro che ci rende discepoli e quindi capaci di apprendere e crescere costantemente.
La radice di quella grottesca vita farisaica è risolvere l’enigma sommo della nostra esistenza con il materiale del proprio ego, ossia sopravvivere alla nostra insufficienza tramite i successi e i possessi, facendo del nostro ego il centro di tutto, più per paura che per cattiveria.
Fintantoché l’uomo, per grazia, non connetta con il Padre celeste la propria identità, allora la cercherà nel mondo, e, finché questa radice non irrorerà il suo essere, dovrà trasformare in competizioni le sue relazioni.
Dovrà essere visto, se non si sentirà custodito e guardato dal Padre; dovrà millantare intelligenza e assolutizzare le sue idee, se non trova l’unico maestro e non si fidi di lui.
Questo testo non fa solo una foto impietosa di tanti di noi, ma dischiude anche la via di uscita da questa miserabile condizione» (Rosini Fabio, Di Pasqua in Pasqua. Commenti al Vangelo domenicale dell’anno liturgico A, San Paolo, Cinisello Balsamo 2022, pp. 218-220).

«Gesù si trova nel tempio. È l’ultimo discorso rivolto alle folle. Si scaglia violentemente contro gli scribi e i farisei e si presenta come il loro vero pastore. Non attacca la loro dottrina. Dice anzi che è giusta e va custodita. Ma altra cosa è il loro comportamento che manifesta una religiosità vuota, fredda, fatta solo di pratiche esteriori. Essi allargano le filatterie, piccole teche che contengono rotoli di pergamena con passi biblici e che si legano al braccio sinistro e sulla fronte. La loro origine è suggestiva: la parola di Dio doveva essere ricordata (la fronte) e messa in pratica (il braccio). Ma era divenuta solo una pratica esteriore. Gesù evoca poi il gesto di allungare le frange, treccine di tessuto munite di un cordoncino violaceo e blu poste ai quattro angoli della veste esterna. Anche Gesù le portava. Ma l’esteriorità ostentata uccide il senso interiore delle cose. Analoga riflessione va fatta sul loro vezzo di ricercare i primi posti nei conviti e i primi seggi nelle sinagoghe. Da ultimo Gesù polemizza con i titoli accademici e ufficiali che scribi e sacerdoti esigevano dal popolo e dai discepoli. Tra questi Gesù sottolinea il più noto, rabbì ossia mio maestro. Anche in questo caso Gesù non respinge la missione dell’insegnamento. Gesù vuole sottolineare l’unicità della sua Parola. Tutti i credenti sono sottoposti al Vangelo, ed è questa la Parola che sempre e dovunque dobbiamo annunciare e vivere. Di qui ha origine la paternità di Dio sulla nostra vita. Ed è il Vangelo, non le nostre parole o i nostri programmi, che ha l’autorità sulla nostra vita. La tentazione di accomodare il Vangelo alle nostre tradizioni e a quelle del mondo è incombente. Gesù questa tentazione l’ha stigmatizzata. E chiede a noi di fare altrettanto» (Vincenzo Paglia, 25-8-2007).

«Non agite secondo le loro opere». L’ammonimento di Gesù mette in luce il grave pericolo che sorge nella comunità a motivo dell’incoerenza soprattutto di chi svolge compiti di guida e di responsabilità. La contraddizione fra l’insegnare e il fare e ancora più grave di quella che sussiste tra il dire e il fare. «Dicono e non fanno»: vuol dire che nella vita cristiana non le parole, contano, ma anzitutto i fatti. Ascoltiamo Sant’Ignazio di Antiochia: «È meglio tacere ed essere, che dire e non essere. È bello insegnare se chi parla opera. Uno solo è il maestro e ha detto e ha fatto e ciò che tacendo ha fatto è degno del Padre. Chi possiede veramente la parola di Gesù può avvertire anche il suo silenzio per essere perfetto, per compiere le cose di cui parla o di essere conosciuto per le cose che tace» (Lettera agli Efesini). Un’altra tentazione che la parola del Signore denuncia è il desiderio di emergere e di distinguersi nella comunità, che contraddice alla fraternità di base che tutti congiunge. L’essere fratelli accomuna tutti, anche chi ha il compito di guidare, o di insegnare ecc. Chi, al contrario, fa dell’autorità un motivo di onore e di privilegio sarà umiliato da Dio.

«L’invidia (Lc 4,24-30)

Nessun profeta è bene accetto in patria

Il profeta è l’uomo che parla in nome di Dio, e non è una cosa da poco. In genere non crediamo a chi afferma di essere un profeta. Magari però siamo psicologicamente più disposti a dargli credito se viene da lontano, se non sappiamo nulla di lui, se le sue origini sono avvolte nel mistero. Come credere a un profeta che abbiamo visto piccolo, che ci ricordiamo ragazzino a scuola e per strada, di cui conosciamo la famiglia, che ci è cresciuto sotto gli occhi, e che magari non era neppure particolarmente brillante? Come ci comporteremmo se uno così all’improvviso dichiarasse che ciò che dice è il messaggio di Dio agli uomini?

Come essere sicuri se qualcuno parla mosso dallo Spirito Santo, se veramente ha avuto una rivelazione? Non basta valutare le sue parole, dobbiamo guardare soprattutto alla persona. Se vive nella fede, se osserva i comandamenti di Dio, è segno che Dio è con lui. La vita pura conferma le parole.

Per questo la Chiesa è sempre prudente e lenta nell’accogliere visioni, rivelazioni o profezie. Se una cosa è vera, il tempo lo dimostrerà.

 

L’ostinazione dei Nazareni

La ragionevole prudenza verso i fenomeni profetici non è la stessa cosa dell’ostinazione nel pregiudizio. A Nazaret succede quello che più o meno avviene anche sotto i nostri occhi. In un paese dove tutti si conoscono, si rispettano e si aiutano quando c’è bisogno, le cose cambiano quando arriva qualcuno che vuole emergere sopra gli altri. Si risvegliano allora sentimenti di invidia, a volte incontrollabili.

Gli autori orientali chiamano l’invidia tristezza psicologica. E un sentimento strano. La tristezza ci fa credere che basterebbe cambiare qualcosa e le cose tornerebbero a posto. La tristezza ci fa credere talvolta che basterebbe eliminare qualcuno per ritrovare la pace. La tristezza è un odio, e quest’odio porta i Nazareni quasi a commettere un omicidio.

Ma l’unico odio che il cristiano deve provare è quello verso il peccato. L’unica tristezza del cristiano è la tristezza del peccato che vede commettere. La tristezza causata dal successo di un altro è il contrario dell’amore. L’amore si oppone all’invidia, e deve occupare tutto il cuore perché l’invidia non prevalga.

 

Ma egli passando in mezzo a loro, se ne andò

Come comportarsi verso chi prova invidia nei nostri confronti, verso chi ci odia senza motivo? È una situazione che non fa piacere a nessuno, e i più sensibili possono soffrirne terribilmente. La prima cosa da fare è un esame di coscienza, per vedere se non siamo noi ad avere qualche colpa. Ma se non ne abbiamo, facciamo ora come Gesù: passiamo in mezzo a questa gente e proseguiamo il cammino senza turbarci.

L’autore dell’ “Imitazione di Cristo”, che deve aver sofferto molti-torti, ripete le parole dell’antica saggezza: “Non sei più grande quando ti lodano ma non sei più piccolo perché ti odiano”. E per i più sensibili aggiunge. Le parole non sono altro che parole. Volano nell’aria ma non muovono il sasso”. Soprattutto quando gli attacchi che subiamo vorrebbero farci deviare dal bene, meglio diventare di pietra e risparmiare la nostra energia e i nostri sentimenti per momenti migliori» (Tomáš Špidlík, Il vangelo di ogni giorno. Riflessioni sul vangelo feriale. Vol. II. Tempo di Quaresima e Pasqua, pp. 48-50).

 

«Pietro, chiedendo a Gesù la misura del perdono, cerca il limite per la comprensione dell’altro. È una domanda che può apparire di buon senso e che comunque vuole superare l’istintivo occhio per occhio e dente per dente. Pietro è pronto a sopportare il torto subito più di quanto richiesto. Gesù però rispondendo abolisce ogni misura. Il perdono è come l’amore, senza limiti e senza confini. E impone a Pietro e ai discepoli di disporsi ad un perdono illimitato: settanta volte sette. Cioè sempre. Solo in tal modo si disinnesca il meccanismo che rigenera continuamente il peccato, la divisione e la vendetta tra gli uomini. Gesù, vedendo la perplessità di Pietro, parla di un re che fa i conti con i servi. Uno ha un debito catastrofico: diecimila talenti (500 miliardi di euro). Il servo abbozza una promessa che in verità non potrà mai mantenere. Questo servo non è una eccezione, è la norma. Tutti infatti siamo dissipatori di beni non nostri. Quel che abbiamo è frutto di grazia e dei talenti affidatici. Siamo perciò debitori, come quel servo, ed abbiamo accumulato verso il padrone un debito enorme. Gesù ce lo ricorda perché non guardiamo con durezza gli altri che domandano qualcosa. Noi che siamo rapidi a difendere noi stessi, sappiamo essere esigenti e inflessibili davanti alle richieste degli altri» (VINCENZO PAGLIA 21-3-2006)

«È un episodio riportato da tutti i Sinottici, nonostante i problemi che sembra suscitare. Gesù sta parlando alla folla, quando sua madre e i suoi fratelli arrivano e cercano di parlargli. Per la gran calca di gente non riescono a raggiungerlo. L’Evangelista nota che i parenti stanno fuori, non sono cioè tra coloro che ascoltano. Così accade a chi si sente talmente parente di Gesù da non sentire più il bisogno di ascoltarlo. Gesù risponde che sua madre e i suoi parenti sono quelli che lo ascoltano, ossia coloro che stanno dentro la predicazione del Vangelo. Per un mondo, come quello ebreo, che considerava i rapporti di sangue un fattore determinante per l’appartenenza religiosa, questo misconoscimento dei familiari risulta davvero sconcertante. Gesù, in verità, indica la sua nuova famiglia: quella composta dai suoi discepoli, da coloro che lo seguono, che hanno fiducia in lui. Il legame del sangue e del clan, il vincolo di nazione o di patria, non sono decisivi per il regno di Dio. Anzi dentro di essi, per quanto profondi, passano come una spada le esigenze della Parola di Dio, perché siano giudicati e se necessario purificati. La comunità cristiana diviene la famiglia di Gesù, ed è molto più larga e salda di quella naturale, appunto perché fondata sulla Parola di Dio. Per alcuni (i soli, i poveri, gli abbandonati) è spesso l’unica famiglia che sa accoglierli; per tutti è esempio di vita fraterna» (VINCENZO PAGLIA 24-7-2007).

Troviamo in questo passo evangelico un breve accenno alla presenza materna di Maria accanto a Gesù durante la sua vita pubblica. Ella è accompagnata da alcuni parenti. In realtà questo vuol dire la parola fratelli in questo contesto, con buona pace dei testimoni di Geova, che vedrebbero nel riferimento ai fratelli di Gesù la prova che la Madonna ebbe altri figli, negando così la fede cattolica nella Verginità di Maria. In ebraico e aramaico i parenti prossimi, per esempio i cugini, vengono chiamati anche fratelli. La risposta di Gesù a chi gli chiedeva di interrompere la sua predicazione per prestare attenzione alla Madre, diventa occasione di una grande lezione di fede. La fedeltà alla missione affidatagli dal Padre ha una priorità che supera anche gli affetti più santi, quali quelli familiari. Gesù infatti ha detto chiaramente ai suoi discepoli: «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me» (Mt 10, 37). Di conseguenza, la disponibilità a svolgere la missione affidata da Dio crea con i destinatari di tale missione un legame di parentela spirituale che supera quelli carnali. Ecco il senso delle parole di Gesù: «Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre». Ma, possiamo dire che, tenendo conto di altri contesti evangelici (Lc 1, 45; 11, 27-28), con queste parole Gesù loda indirettamente anche la sua Madre. Egli afferma in altre parole che per la sua Madre non è importante solo quanto ha ricevuto da Dio come dono per cui è piena di grazia (Lc 1, 28), ma soprattutto l’essersi dichiarata disponibile a compiere la missione che le veniva affidata (Lc 1, 38). Disponibilità alla quale non è mai venuta meno.

«LA VERA PARENTELA

(omelia nel martedì della XVI settimana “per annum”)

Il brano del vangelo che è stato proclamato è al capitolo 12 di Matteo (vv. 46-50) e anche nella sua descrizione non è facile da capire.
Sembra che Gesù sia in una casa, perché si dice che la madre e i fratelli sono “di fuori”, che non possono parlargli.
Tuttavia “Gesù parlava ancora alla folla” e non riusciamo a immaginare come in un luogo chiuso ci possa essere della folla. Forse si intende, per folla, un piccolo gruppo, di poche persone. Nel brano di ieri, c’erano degli scribi e dei farisei che interrogavano il Maestro. Cerchiamo allora di vedere in questa stanza Gesù, i discepoli seduti vicini a lui, poi un po’ di scribi e di farisei e altri ancora.
Questa è la scena. Fuori della porta, ci sono molte persone, tra cui Maria con ì parenti, che si accalcano; fanno passare la voce fino a che qualcuno che è dentro sente e dice a Gesù: “Ecco di fuori tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti”. E Gesù risponde: “‘Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli: ‘Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre”.
Si potrebbe capire che non voglia parlare con i suoi fratelli, ma non riusciamo a capire cosa significa che si rifiuta di parlare con la sua stessa madre. Il passo, come sappiamo, non è isolato. Ce n’è uno più duro, che leggiamo solo nel vangelo di Marco. I parenti di Gesù (non è nominata la madre) vengono a prenderlo, avendo sentito dire che non poteva nemmeno mangiare e dicevano: “E fuori di sé” (cf Mc 3, 20-21). Si pensa che questi parenti siano gli stessi di cui scrive Matteo.
C’è un altro testo in assonanza col nostro: Gesù dodicenne viene ritrovato al tempio e Maria gli dice: “Tuo padre e io ti abbiamo cercato”. Gesù risponde: “Perché dunque mi cercavate? Non sapevate che devo essere nella casa di mio Padre?” (Lc 2, 48-49).
Nella stessa linea, vorrei ricordare l’episodio delle nozze a Cana, quando Gesù si rivolge alla Madre con queste parole: “Che ho da fare con te, donna?” (Gv 2, 4).
La risposta di Gesù non e dunque isolata e dobbiamo capire quale messaggio contiene.

1 – Un primo significato del messaggio è che i legami di parentela carnale vengono dopo quelli della parentela spirituale. E un criterio totalmente rivoluzionario in Israele, come del resto in ogni civiltà. Tutta la vita parte dalla parentela carnale che è la sorgente di ogni fraternità, e la società si basa su questo dato di fatto. Anche i filosofi antichi, come Cicerone, riconoscevano che la carità non e altro che la diffusione verso gli altri dell`amore che si ha verso i propri cari. E questa carità è vera giustizia. Nel mondo di Gesù, la parentela carnale era fondamentale, e da essa dipendeva la religione a partire da Abramo e attraverso tutta la discendenza. Ora Gesù non rinnega di essere figlio di Davide, però ne spiega il significato vero: la parentela carnale resta come un punto di riferimento per una comprensione più profonda.

2 – Il secondo significato del messaggio è che la vera parentela viene dalla volontà di Dio. Questa affermazione è contenuta anche nel Corano. Ricordo che una volta venne al Biblico un maestro del Corano, e abbiamo dialogato sui nostri rispettivi Testi Sacri. Alla fine mi ha citato un versetto del Profeta che press’a poco dice così: Lo studio della Bibbia apparenta quelli che vi si applicano la parentela spirituale che nasce dallo studio del libro, per Gesù nasce, più profondamente, dalla volontà di Dio, del Padre. Viene abbozzata una società fondata su legami provenienti dalla decisione dell’uomo e dalla decisione di Dio, non solo da quelli che si sono ricevuti.

3 – Ne segue che nel Regno di Dio non ci sono altri privilegi al di là della volontà del Padre. Non ci sono privilegi di sangue, di famiglia, e questo è molto difficile da capire. Gli Ebrei ancora oggi non riescono a comprenderlo perché la discendenza per loro è discendenza carnale. Maria però l’ha compreso e l’ha accettato.

4 – Un ultimo significato è che Gesù si presenta come il Messia definitivo disponendo intorno a sé tutti gli altri valori della vita: “Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre”. ll valore supremo è Dio che si comunica in Gesù e Gesù crea un nuovo ordine di valori. Noi lo comprendiamo con la testa, ma non sempre riusciamo a viverlo. Se ci pensiamo bene, dovrebbe essere il principio della vita comunitaria; è la volontà di Dio che ci rende fratelli e sorelle nella vita religiosa. La comunità dipende dunque dalla fede, dal grado di fede con il quale ci siamo davvero consegnati alla volontà del Padre.
Per questo la comunità religiosa, è la comunità di vita a partire dal vangelo, non è una realtà che va da sé. La famiglia, pur nella diversità dei temperamenti e dei caratteri di chi la compone, ha una forza quasi fisica che la tiene insieme. Nella vita religiosa, la forza è la fede e se la fede è poca, sarà difficilissimo superare le fatiche del vivere in comune.
Le difficoltà che si sperimentano nelle nostre comunità, e in ogni comunità cristiana, hanno la loro sorgente in una mancanza di dedizione totale a Gesù e allora i rapporti restano superficiali, la fraternità la si vive con la punta della volontà, non con il cuore, e non si comunica, non ci si apre, non c’è quella devozione di carità che rende tutto gioioso e facile. Non è un problema da poco nella Chiesa.
Anche nelle missioni che ho visitato in Asia, in Africa e in America Latina, sono rimasto colpito dalle interminabili discussioni tra i missionari, tra i cristiani. Eppure si tratta di uomini e di donne che hanno lasciato tutto, che hanno compiuto un atto eroico partendo per paesi lontani e che dovrebbero quindi ritrovarsi in una fraternità profonda. Ma non è così. Certo è un mistero, incomprensibile e però reale.
Se da una parte non dobbiamo meravigliarcene troppo, dall’altra non dobbiamo nemmeno abituarci all’idea. Perché è male, è anormale, non è giusto, ed è necessario che ogni giorno ci sforziamo di entrare nel cuore di Gesù per lasciarci cambiare il cuore, che ogni giorno lo supplichiamo di aumentare la nostra fede.
Preghiamo in questa Eucaristia per tutti gli errori che abbiamo commesso contro la carità fraterna, per tutte le volte che non abbiamo guardato i fratelli e le sorelle come veri fratelli e vere sorelle ai quali si può perdonare tutto di cuore, con gioia. Gesù e per noi fratello, sorella e madre e lo diventa nelle persone che vivono con noi, che comunicano ai nostri ideali di vita, che ci sostengono nel comune cammino.
Perdonaci, Signore, le divisioni; guarisci le nostre ferite e le nostre divisioni interiori. Donaci la pace che viene da te e che è il segno che siamo una cosa sola in te» (CARLO M.MARTINI, Davide peccatore e credente, Centro ambrosiano – Edizioni Piemme, Casale Monferrato 1989, pp. 59-63).

«Ancora una volta il Vangelo ci mostra Gesù che lotta contro il male, contro il principe del male che teneva schiavo un uomo rendendo lo muto, incapace di comunicare con gli altri. Gesù libera quest’uomo dalla sua schiavitù. E tutti, appena sentono parlare quest’uomo, si meravigliano. Lo spirito del male non si arrende e, se possibile, rafforza la sua resistenza e la sua opposizione a Gesù e al Vangelo. È una storia di opposizione e di lotta che continua ancora oggi. L’incomunicabilità è davvero frequente: è difficile comunicare tra persone, tra etnie, tra popoli, tra nazioni. E l’incomunicabilità crea tensioni e conflitti, talora drammatici. Il principe del male opera perché la divisione e l’inimicizia si allarghino. I discepoli, anche oggi, sono invitati a essere attenti e vigilanti, a non abbassare la guardia, perché siano sconfitti dagli spiriti del male e della divisione. E soprattutto debbono sapere che Gesù è davvero il più forte che può custodire la casa di cui parla il Vangelo. Questa casa è il cuore di ciascuno, è la comunità cristiana, è il mondo» (Vincenzo Paglia, 23-3-2006).

Dio è Dio!
Anche nel nostro tempo alcuni sono affascinati dalla cultura della trasgressione: ritengono un male l’opera stessa di Dio e disprezzano la sua legge.  I valori non vanno sottoposti a voto di maggioranza, appartengono alla natura dell’uomo perché lo fanno forte e significativo. Alcuni avvalendosi del potere, della capacità che hanno acquisito di convincere i semplici, propongono azioni che degradano l’uomo, avvelenano la convivenza tra persone, penalizzano i più deboli. Concepire la vita come una grande competizione, premiare chi divide e confonde i piccoli, portare sulla cattiva strada i più giovani è peccato. Il muto che torna a parlare è immagine dell’opera del Signore, che recupera i rapporti tra le persone, umanizza, soccorre, sottrae alla malia delle apparenze. Tutto quello che è profondamente umano è cristiano; quanto invece disumanizza non viene da Dio. Cresca in noi il fervore per trovare ancora, nella verità, il fascino che ci fa liberi e figli di Dio.

«Raccogliere o disperdere
Davvero la sorte di un profeta è singolare, per non dire drammatica. Come portavoce di Dio, il profeta è inviato a comunicare una parola di salvezza, la parola stessa di Dio che contiene la vita e orienta il cammino dell’uomo: “Camminate sempre sulla strada che vi prescriverò”, -così Dio si rivolge al suo popolo, “perché siate felici” (Ger 7,23). Eppure il profeta spesso si trova di fronte a un rifiuto paradossale: sembra che l’uomo preferisca camminare in senso contrario a quella via indicata, ostinandosi a scegliere strade costellate di illusorie felicità che conducono alla morte: “Procedettero ostinatamente secondo il loro cuore malvagio e, invece di rivolgersi verso di me, mi hanno voltato le spalle” (7,24). E parlando al profeta, Dio non nasconde il paradosso che deve affrontare colui che annuncia la sua parola: “Dirai loro tutte queste cose, ma non ti ascolteranno; li chiamerai, ma non ti risponderanno” (7,27). Non è certo entusiasmante questa prospettiva: parlare a dei sordi e chiamare chi si rifiuta di rispondere a un invito. Sembra il fallimento di una missione, ma più in profondità, il fallimento della parola di Dio: una Parola che si dimostra debole, incapace di squarciare la sordità in cui si chiude l’uomo, incapace di offrire all’uomo quella voce che lo rende interlocutore di Dio. Geremia ha sofferto una lacerazione interiore per questo apparente scarto. Ha tentato di fuggire, deluso di sé e di Dio; eppure sempre è stato ripreso da Dio e con pazienza educato a comprendere una verità profonda. La parola di Dio, anche nel suo apparente fallimento, non perde la sua forza. Per questo deve essere ad ogni costo annunciata, perché ci sarà sempre qualcuno che l’accoglierà.
Quasi di riflesso, il dramma di una parola rifiutata accompagna anche la missione di Gesù. Ma qui si rivela la radicalità del rifiuto perché Gesù non è una parola di Dio, ma è la parola di Dio. Acquista allora maggior forza il rifiuto di fronte ai segni che egli compie. E il brano di Luca proposto oggi ne è una chiara dimostrazione. Gesù agisce sull’uomo, schiavo del male, ridando a un muto la possibilità di parlare. L’assenza della parola colloca l’uomo in un deserto vuoto in quanto lo rende incapace di entrare in relazione. Chi può ridurre l’uomo a questa solitudine, se non colui che vuole privarlo di quella parola che apre al dialogo con Dio? “Uscito il demonio», racconta l’evangelista, “il muto cominciò a parlare e le folle furono prese da stupore» (Lc 11,14). Ma accanto allo stupore, si manifesta anche irritazione e durezza di cuore. Quando non si vuole riconoscere un’evidenza, quando ci si rifiuta di lasciarsi convertire dallo stupore con cui Dio interviene nella vita dell’uomo, allora si assume una maschera assurda e grottesca: “È per mezzo di Beelzebùl, capo dei demòni, che egli scaccia i demòni” (11,15). Non si riesce più a gioire di quella salvezza che è segno del Regno ormai operante nella storia dell’uomo; non ci si accorge che si entra proprio nel gioco del nemico. Scegliere questa via è davvero “voltare le spalle” a Dio, abbandonare la propria vita nelle mani di colui che ci illude e ci inganna e disperderla, poiché il nemico è colui che frantuma e divide la nostra esistenza.
“Se invece io scaccio i demoni con il dito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio” (11,20). Con queste parole Gesù ci mette di fronte a una scelta. A chi vogliamo affidare la nostra vita: a Colui che è più forte di chi tiene in schiavitù il nostro cuore, a Colui che può far abitare in esso la forza dello Spirito e il tesoro della sua parola di vita, oppure a colui che ci illude della sua forza, che ci suggerisce una falsa libertà, che ci tiene in ostaggio con le sue armi, ma che alla fine frantuma il nostro cuore e lo riempie di tristezza, di inquietudine e di paura? Non ci sono molte scelte e non possiamo restare neutri. Gesù ce lo ricorda: “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” (11,23).
La tua parola, o Signore, è la verità che ci fa liberi: con la sua potenza libera il nostro cuore dai lacci del male. La tua parola è la spada dello Spirito: con essa difendi e custodisci il nostro cuore dagli assalti del male. La tua parola è lampada ai nostri passi: con la sua luce dissipa dal nostro cuore le tenebre del male e guidalo sulla via del bene» (ADALBERTO PIOVANO, in Messa e preghiera quotidiana, marzo 2016, pp. 34-36).

Ascolta Israele!

“Ascolta Israele!” è come dire che “in principio era il Verbo”. La Parola e l’ascolto si richiamano vicendevolmente, come la rivelazione e la salvezza. Il primato della Parola assicura la relazione con Dio, ma anche l’efficacia dei sacramenti. I profeti gridando ad Israele che la causa dei mali sta nel cuore, nel non ascoltare Dio. E’ vero per Israele; è vero anche per il nuovo popolo di Dio, che senza il ricorso alla Scrittura rischia di mondanizzarsi. Se della Parola ce ne facciamo un ornamento, laddove se ne parla, si canta, se ne fanno dissertazioni, ma non si mette in pratica, viene meno il rapporto con Dio e la vita buona del Vangelo. La Chiesa prega di essere liberata dagli sbandamenti umani, dalla tentazione ideologica, per ritornare all’umile ascolto di Dio, che arreca la salvezza. Senza l’ascolto della Parola non c’è Eucaristia, ma un vano susseguirsi di riti; senza la Parola non vi è carità, ma mera filantropia.


«Uno scriba si avvicina e chiede a Gesù quale sia il primo dei comandamenti. In genere lo scriba è un buon conoscitore della Legge. Ma correttamente si avvicina al Maestro non per metterlo alla prova, bensì per apprendere da lui. Nessuno può essere maestro a se stesso. Tutti abbiamo bisogno di continuare a chiedere al Signore il senso delle Scritture per la nostra vita. E Gesù risponde che il primo comandamento è duplice: amare Dio e amare il prossimo. Sono due amori inscindibili; anzi, formano un solo amore, una cosa sola. Scrive l’apostolo Giovanni: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (Gv 4,20). Gesù che ha amato Dio sopra ogni cosa, più della sua stessa vita, e che ugualmente ha amato gli uomini sopra ogni cosa, più della sua stessa vita, ci offre l’esempio più alto del primo comandamento. Quello scriba, soddisfatto della risposta di Gesù, si sentì dire che non era lontano dal regno di Dio. Molto di più che a quello scriba è stato dato a noi. Apprendiamo da lui almeno la sua disponibilità a chiedere e la sua prontezza a ricevere» (VINCENZO PAGLIA).


«È una grande gioia meditare questo Vangelo che ci parla del “primo di tutti i comandamenti”, dell’amare. “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Questo è appena l’inizio della “professione di fede” d’Israele. E’ uno dei brani più importanti, più conosciuti e più cari al cuore del popolo eletto. Il pio israelita lo ripete più volte al giorno, in casa, al lavoro, o nella sinagoga, ovunque si trova. Inizia con l’invito all’ascolto rivolto all’intera comunità ebraica, perché questa è qualificata come “popolo dell’ascolto”, come assemblea in perenne atteggiamento di ascolto. San Benedetto all’inizio della sua Regala invita i monaci all’ascolto, cioè ad amare e servire Dio conformandosi alla sua santissima volontà. Questo comandamento esprime anche la vocazione di ogni uomo, di ogni cristiano. Ed è una grande felicità aver trovato chi amare e come amare. Marco vuole inserire nel cuore dell’uomo il dono della fede e dell’amore. Ci offre tre precisazioni in merito all’esercizio concreto dell’amore: “con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. La triplice ripetizione ci mette sull’avviso che qui si sta parlando della radicalità dell’amore: non si ama con una certa misura, non si ama poco, né con scadenza di calendario. Si ama con totale dedizione, in pienezza e per sempre. “La misura dell’amore insegna san Bernardo, è di amare senza misura”. Dio unico esclude ogni altro idolo; e la dipendenza da lui è sorgente e garanzia di unità per l’uomo. Il comandamento dell’amore sarebbe impossibile per noi se fossimo soli, soltanto con il nostro povero cuore. Ma Dio ci ha dato il suo Figlio e nel suo Figlio ci ha dato un cuore nuovo. Perché possiamo amarlo con tutto il nostro cuore, con la nostra intelligenza, la nostra anima e amare con lo stesso amore il nostro prossimo. Abbiamo il cuore di Gesù, che è il nostro grande tesoro. Ringraziamo con gioia Dio Padre, che ci ha amato per primo e ci ha dato in Gesù la possibilità di rispondere al suo amore» (PADRI SILVESTRINI).

«Il sabato è il giorno della creazione; il miracolo di Gesù è segno della creazione nuova. Redimere è riscattare il progetto di Dio per l’uomo. Gesù ci libera dal male facendosi carico dei problemi di tutti noi. Il Vangelo, assimilando l’infermità al peccato, ci fa scorgere la misericordia di Dio che, con la fatica dell’incarnazione da Betlemme al Calvario, manifesta il suo amore e rimedia le sofferenze dell’uomo. Ne guarisce l’aridità e il compromesso con il male. Chiede anche alla Chiesa di fare altrettanto. I Padri amavano chiamare il popolo di Dio “Cristo totale”, perché non è più separabile Gesù, che ne è il capo, da noi, che ne siamo il corpo. Per vivere degnamente il mistero pasquale ci è chiesto di recare ai fratelli il lieto annunzio della salvezza. Noi stessi qualche volta ci stupiamo che Gesù risorto operi ogni giorno tramite questa povera Chiesa che, pur segnata da contraddizioni e dal peccato, riesce ancora a fare presente il Signore».

«Martedì – La guarigione di sabato (Gv 5,1-3.5-16)

 

La guarigione di un infermo alla piscina di Betzaetà

 

In questo miracolo c’è una contraddizione che spesso non viene colta. Agli uomini con le gambe sane la legge sul sabato vietava ogni movimento inutile. Al paralitico incapace di muoversi, Gesù, proprio di sabato, ordina di camminare e addirittura di portarsi da sé il letto, uno sforzo proibito in modo esplicito. Il paralitico non era in grado di farlo, ma all’invito di Cristo ci riesce. A prima vista sembra che Gesú voglia abolire l’istituzione del sabato, che per gli Ebrei era sacra e dal punto di vista sociale aveva un valore benefico, come lo hanno le feste cristiane.

Ma l’atteggiamento di Gesú verso le prescrizioni dell’Antico Testamento è sempre lo stesso: occorre ritornare alla radice di ogni prescrizione e ristabilire il significato originale che le aveva ispirate.

Il sabato era stato introdotto per dare a ciascuno il tempo di elevare la mente a Dio. Il movimento del corpo forse può ostacolare questa elevazione, ma certo molto meno del movimento causato dai cattivi pensieri e dalle passioni del cuore.

 

Non peccare più perché non ti abbia ad accadere qualcosa di peggio

In che cosa ha peccato quell’uomo? La sua paralisi era la pena per una colpa? Il vangelo non lo rivela, piuttosto mette in guardia sul pericolo sempre presente dell’immobilità. Il peccato si manifesta come una specie di paralisi spirituale, come un’incapacità di usare le proprie qualità per fare il bene.

Questa paralisi raggiunge forme quasi patologiche quando si tratta di antiche passioni. Un grande pigro quasi preferisce lasciarsi bruciare che saltare dal letto in caso di allarme. Drammatico diventa “camminare fuori” dalla paralisi di un’antica avarizia, lussuria, ira, invidia… Ma la paralisi aggredisce anche nel caso di passioni minori. Per chi non va in chiesa da tanto tempo è un supplizio ascoltare la messa. Confessarsi dopo molti anni è una fatica peggiore che scalare un ghiacciaio. A chi ha smesso di pregare le parole delle preghiere più semplici sembrano più incomprensibili della scrittura cuneiforme.

Ci vuole una grande forza di volontà per tornare a fare queste esperienze e capire che non è poi tanto difficile come sembrava. Ma in molti casi ci vuole un vero miracolo della grazia per spingere l’uomo ad alzarsi e camminare.

 

La domenica cristiana

I primi cristiani si sentivano liberati dalle prescrizioni giudaiche sul sabato. Ma con il tempo introdussero il riposo della domenica, che però non era tanto una sospensione da ogni movimento, quanto dalla fatica del lavoro quotidiano. Anche in nome del rispetto della domenica sono avvenuti abusi. Un pericolo di integralismo c’è in ogni tradizione religiosa, se si perde il senso spirituale originario.

Quale è il senso della domenica cristiana? Quasi in tutto il mondo la domenica è diventata week-end, un fine settimana di riposo e di svago osservato anche dagli atei. Anzi, in alcuni paesi il riposo domenicale è prescritto per legge dallo stato in maniera più severa di quanto non faccia la Chiesa.

Ma i cristiani credono, con sant’Agostino, che il cuore umano non troverà vero riposo se non in Dio. Ciò E che conta dunque è che le domeniche e le feste religiose non perdano il loro significato religioso e non diventino piuttosto occasione di turbamento» (Tomáš Špidlík, Il Vangelo di ogni giorno. Riflessioni sul vangelo feriale. II. Tempo di Quaresima e Pasqua, Lipa, Roma 2001, pp. 66-68).

Il fascino di Gesù è grande. L’incontro con Lui non è mai banale: suscita assonanze interiori o rifiuto; non lascia mai indifferenti. Il Vangelo ci propone di imparare da Gesù. La Chiesa prega che la frequentazione dell’Eucaristia ci spogli dell’uomo vecchio e ci rivesta del Cristo, nella giustizia e nella santità. L’ascolto della Parola di Dio ci motiva razionalmente e offre alla nostra volontà le motivazioni per diventare sempre più giusti. Ma la Parola ha anche una valenza soprannaturale; è dinamica e creatrice, per la forza dello Spirito Santo. Il corpo e il Sangue del Signore, assimilato nella nostra esistenza ci trasforma e, da peccatori, ci fa diventare santi: come dice l’Aquinate non è il premio dei buoni, ma il sostentamento che ci fa diventare, da peccatori, santi. Accogliamo con gioia i frutti della redenzione e manifestiamoli nel rinnovamento della vita.

 

 

 

«C’è un modo scontato di ascoltare la Parola di Dio che ci fa ritenere di conoscerla già. Come quegli uomini che davanti a Gesù pensano di sapere già chi è, perché sanno da dove viene. Basta loro qualche sommaria notizia a chiudere occhi e orecchie. Gesù però sfugge a questa logica del pregiudizio: ha qualcosa da comunicare, o meglio qualcuno da farci conoscere che è Dio stesso, che sfugge ai facili giudizi di chi pensa di sapere già come vanno le cose. Per questo Gesù sfugge alla cattura di quegli uomini che volevano imprigionarlo. La Parola del Signore sfugge all’ingabbiamento che vogliamo tante volte imporgli, per farne qualcosa di innocuo e scontato. Sfugge e si libera del peso delle abitudini, anche quelle religiose, che tante volte noi usiamo per camuffarla. Non era giunta ancora la sua ora, dice Giovanni, perché il tempo opportuno per cercare Gesù è sempre, in ogni momento e situazione, e mai è l’ora in cui possiamo dire di possederlo già» (Vincenzo Paglia 31-3-2006).


«Il segreto di Gesù

“Cercavano allora di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettere le mani su di lui, perché non era ancora giunta la sua ora” (Gv 7,30). Con questo modo di raccontare Giovanni ci ricorda che gli uomini non potrebbero nulla contro Gesù, se non fosse Gesù stesso a «consegnare» liberamente la propria vita. Giovanni lo afferma in modo netto in diverse pagine del suo racconto. Ricordiamone almeno una; nel discorso del “buon pastore”, al capitolo 10, Gesù dichiara solennemente: “Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo” (10,17-18). Ecco la ragione per la quale non riescono ad arrestarlo, nonostante tutti i loro sforzi. Nessuno gli può prendere o rubare la vita, soltanto lui la può donare nella libertà dell’amore. L’ora giunge non quando scocca un destino indecifrabile, ma quando Gesù decide liberamente, in obbedienza al Padre, di consegnarsi ad essa. Nella prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, leggiamo cosa si può celare nel cuore duro degli uomini: “Tendiamo insidie al giusto […]. Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti […]. Condanniamolo a una morte infamante…” (Sap 2,12. 19.20). Questi sono i disegni malvagi degli uomini. Conclude però l’autore: “Hanno pensato così, ma si sono sbagliati; la loro malizia li ha accecati. Non conoscono i misteriosi segreti di Dio” (2,21-22). Il segreto di Dio si rivela nell’ora di Gesù: è il mistero di un disegno di salvezza che si attua accettando di patire, ma in questo modo di trasformare, i pensieri degli uomini. Là dove gli uomini ordiscono il male, Dio riesce a tessere un disegno di amore e di salvezza.

Gesù, racconta sempre la pagina di Giovanni, sale a Gerusalemme in occasione della festa delle Capanne, “non apertamente, ma quasi di nascosto” (Gv 7,10). Non è l’atteggiamento prudente o guardingo di chi ha qualcosa da temere o cerca di evitare il pericolo. Gesù, infatti, anche durante questa festa insegnerà nel tempio apertamente, senza timori. È piuttosto il salire di nascosto di chi custodisce un segreto e attende il momento opportuno per svelarlo. E il segreto che Gesù custodisce è tutto racchiuso in quel “da dove” che risuona anche in questa pagina di Giovanni, così come in tanti altri passi del suo vangelo. “Costui sappiamo di dov’ê; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà dove sia” (7,27), esclamano increduli i giudei. Essi presumono di conoscere da dove sia Gesù, pensano che venga dalla Galilea, dalla famiglia di Giuseppe, il falegname, e di Maria. Invece Gesù custodisce un segreto: il suo venire da altrove, dal Padre. “Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure non sono venuto da me stesso, ma chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. Io lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato” (7,28-29). Ecco il segreto di Gesù: viene dal Padre ed è il Padre ad averlo mandato. Gesù si è lasciato inviare, cosi come tra poco si lascerà consegnare dal Padre alla sua ora, in un amore più forte, vittorioso sull’odio di chi trama contro di lui per consegnarlo alla morte.

«Mettiamolo alla prova» (Sap 2,19) afferma il libro della Sapienza, ma l’essere provato sarà proprio ciò che consentirà a Gesù di rivelare l’infinito e insondabile amore del Padre che lo ha inviato e ora lo consegna; un amore attraverso il quale il Padre rivela tutto il suo segreto, e anche Gesù manifesta tutto ciò che è nascosto in lui, nella sua persona, nella sua storia.

Di questo amore, che si è pienamente svelato nell’ora di Gesù, facciamo memoria in ogni eucaristia. Di fronte a chi tramava contro di lui Gesù ha rivelato il suo segreto: questo è il mio corpo che è dato per voi, questo è il mio sangue versato per voi. È un dono che ora sfama la nostra vita e ci rende sua memoria vivente. L’ora di Gesù diviene allora la nostra ora, il suo modo di essere e di agire il nostro modo di essere e di agire. Il suo segreto, il nostro segreto» (Luca Fallica, Messa e preghiera quotidiana, marzo 2016, pp. 112-114).

L’umanità sfinita per il peccato torna a vivere per il gesto d’amore di Gesù, che per noi peccatori affronta la crudezza della passione. La gratuità di Maria è la risposta adeguata al Signore; è lo stile nuovo degli amici di Gesù, che si contrappone al calcolo interessato di Giuda, il traditore, l’uomo dei trenta danari. L’unguento profumato aggiunge incontaminata poesia all’ultimo incontro di Gesù con i suoi. Rivela anche a me l’amore appassionato del Cristo per l’umanità ferita. È l’unguento che la nostra tradizione medievale volle capace di guarire ogni male. Anche noi abbiamo bisogno di essere risanati dal peccato che sfigura, dalla superficialità che rende tutto banale. La prima testimone della Resurrezione ci viene incontro nel primo giorno della settimana santa con la delicatezza del nardo e la compassione composta e sofferta, che è la risposta dei cristiani all’amore generoso di Gesù.

Gesù si ferma in casa di Marta, Maria e Lazzaro: una famiglia molto cara a Gesù. Ad un certo momento della cena, Maria si alza, si inginocchia ai piedi di Gesù e li cosparge con l’unguento; poi li asciuga con i capelli. Per Giuda è uno spreco inutile. L’apostolo appare un uomo equilibrato, ragionevole e persino attento ai più poveri. In realtà, il suo interesse vero era per i soldi, non per i poveri. Gesù che guarda il cuore lascia fare la donna; quell’unguento anticipa l’olio con cui il suo corpo verrà cosparso prima della sepoltura. E poi aggiunge: «I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me». Di lì a poco sarebbe iniziata la sua via crucis, fino alla morte. Maria, unica tra tutti, aveva compreso che Gesù era un moribondo e perciò bisognoso di affetto. Questa donna ci insegna come stare accanto a Gesù, ai deboli e ai malati. Quella che lei ha percorso sino a baciare i piedi del maestro è la via della salvezza: essere compagni dei poveri per essere accanto a Gesù. I poveri li avremo sempre con noi. Essi possono dirci quanto hanno bisogno dell’unguento dell’amicizia e dell’affetto.

«Il culto dell’uomo-Dio vale più che la lotta a vantaggio dei poveri. C’è una povertà verticale che ci riguarda tutti, è nostra. Una volta riconosciuta, questa povertà si esprime in un gesto gratuito di adorazione, crea lo spazio inutile della liturgia, offre a Dio le primizie togliendosele di bocca. Nella vita di fede c’è uno spreco inevitabile e amabile, un esalarsi nel puro nulla: uomini e donne che si sciupano consacrandosi a Dio, tempo perduto nella preghiera. L’adorazione è spreco. Che sarebbe la Chiesa, se la borsa di Iscariota fosse piena per i poveri e la casa di Betania vuota di profumo?» (VALERIO MANNUCCI).

GIOVEDÌ SANTO

MESSA «IN COENA DOMINI»

 

«In questo giorno tutta la Chiesa rievoca l’Ultima Cena di Gesù che viene resa presente nell’Eucaristia.

Secondo i Sinottici, l’Ultima Cena è avvenuta nella ricorrenza della Pasqua ebraica. Perciò la prima lettura riferisce le disposizioni che il Signore dà al popolo ebreo per la Pasqua prima dell’uscita dall’Egitto. La seconda lettura è il racconto di Paolo nella Prima lettera ai Corinzi, della Cena del Signore, nella notte in cui egli veniva tradito. Il Vangelo riferisce un altro episodio della stessa sera: Gesù, in atteggiamento di servo, lava i piedi ai suoi apostoli.

La Pasqua è stata il momento culminante della storia degli ebrei. Il popolo si trovava in Egitto, schiavo, sotto un’oppressione che diventava sempre più pesante e micidiale, perché, tra le misure di repressione prese dal faraone, c’era anche l’uccisione dei bambini ebrei maschi.

Dio interviene e dà ordine a Mosè e ad Aronne di preparare la Pasqua. Gli ebrei devono procurare un agnello per famiglia; poi la sera devono uccidere l’agnello e metterne il sangue sugli stipiti e sull’architrave delle case in cui abitano. Dio dice:

“In quella notte io passerò per il paese d’Egitto e colpirò ogni primogenito nel paese d’Egitto, uomo o bestia; così farò giustizia di tutti gli dèi dell’Egitto. Io sono il Signore!”. Si porrà dunque fine all’oppressione degli ebrei, grazie a questo intervento del Signore.

“Il sangue sulle vostre case sarà il segno che voi siete dentro: io vedrò il sangue e passerò oltre, non vi sarà per voi flagello di sterminio, quando io colpirò il paese d’Egitto”. Il sangue sarà il segno che il flagello deve passare oltre. La parola “Pasqua” significa infatti “passare oltre”.

 

Così comincia la storia del popolo ebreo, la storia dell’esodo, del cammino verso la terra promessa. E ogni anno questo evento deve essere commemorato con il rito della Pasqua in ogni famiglia ebrea.

Gesù deve celebrare la sua Pasqua durante questa festa ebraica, e la fa preparare con molta accuratezza. Paolo dice nella seconda lettura: “Il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”.

Questa è la Pasqua cristiana: un passaggio straordinariamente drammatico e positivo. Infatti, con questi gesti semplici e queste parole inaspettate Gesù trasforma tutta la situazione. Egli sa che sta per essere tradito; sa che verrà processato, condannato, maltrattato, giustiziato con il supplizio degli schiavi, la croce. Lo aveva già detto agli apostoli. Ma nella sera del Giovedì santo prende in anticipo tutti questi eventi, li rende presenti nel pane spezzato e nel vino, e li trasforma in occasione del dono più generoso, più completo di se stesso per la nostra salvezza.

Non si potrebbe immaginare una trasformazione degli eventi più radicale di questa: eventi crudeli che diventano occasione di un dono di amore, di una fondazione di alleanza. Tutta la nostra vita cristiana si basa su questa trasformazione della morte di Gesù in evento di alleanza.

Dovremmo riflettere spesso su questo fatto straordinario e renderci conto della generosità di cuore che Gesù ha mostrato in quelle circostanze. Egli ha capovolto il senso della morte: questa, che di per sé è un evento di rottura, è diventata, grazie al suo sacrificio, un evento di alleanza.

Il Vangelo di Giovanni non racconta questo episodio dell’Ultima Cena. L’ evangelista ne ha già parlato nel Discorso sul pane della vita (cf. Gv 6), nel quale Gesù afferma: «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51). “Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il mio sangue, non avrete in voi la vita” (6,53); “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, dimora in me e io in lui”. Dobbiamo ricevere l’Eucaristia per essere veramente pieni dell’amore di Gesù.

Per l’Ultima Cena di Gesù, Giovanni racconta un altro episodio che è molto significativo e che, in un certo senso ci è più utile per la nostra vita cristiana, in quanto costituisce un modello per noi. Alla fine dell’episodio infatti Gesù dice: “Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi”.

Dare la propria vita per gli altri non è una caratteristica di tutti: è un fatto piuttosto raro e non succede ogni giorno. Invece servire gli altri, lo possiamo e lo dobbiamo fare tutti ogni giorno. Tutta la nostra vita cristiana deve essere un servizio. E Gesù  ce lo ha voluto far capire in modo molto concreto con l’episodio della lavanda dei piedi.

Gesù Maestro e Signore, depone le vesti, prende un asciugatoio, se lo cinge attorno alla vita, versa del1’acqua nel catino e comincia a prestare il servizio dello schiavo. Lavare i piedi degli ospiti, infatti, era il compito dello schiavo.

Simon Pietro non vuole accettare tale servizio: gli sembra che in questo modo il Signore rinunci alla sua dignità. Ed effettivamente Gesù rinuncia alla propria dignità, per servire umilmente; si umilia davanti ai suoi discepoli. Egli allora dice a Pietro: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”.

Tutti dobbiamo accettare di essere lavati dal Signore, di essere liberati dai nostri peccati, per poter aver parte con lui. In particolare dobbiamo accettare di essere purificati con il sacramento della riconciliazione, per poter partecipare più degnamente all’Eucaristia.

Dopo queste parole di Gesù, Pietro accetta di farsi lavare i piedi. Non ha ancora capito bene, ma capirà più tardi. Così Gesù ci dà un insegnamento fondamentale, che esprime il senso di tutto il suo mistero pasquale. In un altro passo egli dice: “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45).

La passione di Gesù è un servizio portato all’estremo, un servizio in cui tutto l’essere umano di Gesù viene, per così dire, consumato per noi. Questo ci fa capire che l’Eucaristia è Gesù che si mette a nostro servizio. Egli si fa nostro cibo e nostra bevanda. Non è possibile mettersi a servizio di un’altra persona in un modo più totale e più perfetto di questo.

Gesù ci indica chiaramente questo senso del servizio, perché esso è fondamentale nella nostra vita cristiana. I cristiani non sono fatti per essere serviti ma per servire e per vivere nell’amore in maniera effettiva. La nostra vocazione è una vocazione all’amore. Dio ci ha creati per comunicarci il suo amore e per renderci capaci di vivere nell’amore. Ma l’amore senza il servizio è un amore vuoto, non è un amore autentico. E, d’altra parte, il servizio senza amore è una schiavitù, e quindi non è degno della persona umana. Dobbiamo mantenere sempre l’unione molto stretta di queste due realtà: il servizio e l’amore. Questo è il grande insegnamento che Gesù ci dà nell’Ultima Cena.

Ricevendo la Comunione, noi accettiamo di essere formati dal Signore Gesù nel senso di diventare servitori degli altri, ciascuno secondo la propria vocazione. Non ci sono infatti vocazioni identiche, ma tutte le vocazioni sono forme di servizio per amore. Amare e servire: questo è il grande insegnamento del Giovedì santo.

Chiediamo al Signore di mettere nel nostro cuore questo spirito di amore e di servizio, che può trasformare il mondo attorno a noi. Se invece della ricerca del denaro, del potere e del piacere, ci fosse dappertutto questo spirito di amore e di servizio, il mondo diventerebbe più bello. La nostra vocazione è di spingere il mondo in questa direzione» (Albert Vanhoye, Le letture bibliche delle domeniche. Anno A, Edizioni AdP, Roma 2016, pp. 93-96).