commento alla liturgia della parola tempo di Pasqua

«I capi religiosi sono avvertiti dalle guardie di quanto è accaduto. Spaventati, corrompono con il denaro i soldati e li convincono a dire che sono venuti i discepoli di notte e hanno rubato il corpo di Gesù mentre loro dormivano. La testimonianza di due povere donne contro quella ben più credibile delle guardie. Il Signore sa che il mondo vuole le tombe sigillate, e si serve della menzogna e della corruzione perché non si sparga la notizia che egli è risorto. Il principe del male è disposto a tutto, perché non sia divulgata la notizia liberatrice della vittoria della vita sulla morte, della vittoria dell’amore per gli altri sull’amore per se stessi; è disposto a tutto, perché questa notizia dà agli uomini la forza di rivoltarsi contro ogni menzogna, contro lui stesso, padrone della menzogna. Da allora, chiunque annuncerà questa notizia potrà essere trascinato davanti a re e giudici per essere condannato. In questo nostro mondo c’è una cultura di morte che inizia già dai primi anni di vita con l’educazione all’egoismo e al pensare solo a se stessi, che poi diventa disprezzo per la vita degli altri e per la vita di chi soffre. La cultura della morte droga i vivi, li abbrutisce, li spegne, perché siano schiavi e giustifica il commercio della morte: il cibo viene nascosto agli affamati, la droga viene offerta ai rassegnati, le armi vengono vendute agli adirati. E si muore, si muore in tante terre, in modi diversi, credendo che ciò avvenga per motivi diversi, ma il disegno è lo stesso, è il disegno della cultura di morte che vuole gli uomini sin da giovani stupidi ed egoisti per farne dei servi. L’intimidazione e la corruzione vogliono far tacere il Vangelo della vita: non sono riusciti a far tacere il Signore Gesù e lo hanno ucciso. Vogliono far tacere anche i suoi discepoli. Non abbiate paura! Bastano due povere donne, obbedienti in tutto al Vangelo, per vincere l’intrigo dei capi».

«La Galilea dove fare esperienza della resurrezione del Signore è il luogo della ferialità, lo spazio della vita d’ogni giorno. Gesù è veramente risorto. È vivo, è presente in mezzo a noi che siamo la sua Chiesa. Come gli Apostoli, come i discepoli, tocca ora a noi, che siamo il popolo che Dio si è scelto, proseguire nel tempo la missione che il Padre ha affidato al suo Cristo. Nel Nuovo Testamento la Chiesa è raffigurata come un corpo di cui Gesù è il capo e noi le membra, come l’ovile la cui porta unica è il Cristo; un gregge di cui Dio stesso è il pastore; un campo, una vigna il cui agricoltore è il Signore; una casa, una famiglia, un tempio. Questa Santa Chiesa che siamo noi è ancora chiamata nuova Gerusalemme, sposa dell’Agnello immacolato, al di là delle immagini sa che deve misurarsi con la presenza attiva di Gesù. Le varie icone che la Scrittura ha tratto dal mondo pastorale o agricolo di Israele antico sono una pluralità di linguaggi con i quali comunicare l’annunzio Pasquale. Anche in questo tempo ci è chiesto d’essere testimoni del Regno in mezzo alla gente tra cui ci è dato di vivere. Chi ha conosciuto il Signore nella sua storia personale non può che dare speranza alla gente che incontra. La fede ci motiva a costruire la civiltà dell’Amore».

«La festa. Perché la Pasquetta è il “Lunedì dell’Angelo” e non è di precetto

Il giorno dopo la Pasqua è dedicato da una tradizione secolare alla contemplazione dell’annuncio di Pasqua, come una prosecuzione del giorno decisivo per la nostra fede creata dalla devozione

Perché il giorno dopo la Pasqua si chiama Lunedì dell’Angelo? E perché non è festa di precetto? La tradizione nella Chiesa è fonte certa per la fede del popolo di Dio, e va colto il significato profondo che essa ha attribuito nei secoli a giorni e gesti che hanno un valore determinante per il senso cristiano della storia.

Il Lunedì dell’Angelo è un prolungamento della Pasqua, come rispondendo alla necessità di gustare e contemplare una scena che ha cambiato la storia del mondo, e la nostra personale. Siamo di fronte al punto di svolta per il Creato e l’umanità: e dopo il giorno di festa grande nel quale si è come sopraffatti dalla grandezza della notizia del sepolcro vuoto e del Figlio di Dio risorto e vivo, la fede della gente ha sancito la necessità di soffermarsi sul messaggio dell’annuncio di Pasqua. Recato da un angelo.

Quella alla quale la Chiesa dedica la giornata che segue l’evento della Risurrezione è infatti la risposta dell’uomo alla sorpresa di Dio, alla sua promessa di una compagnia che non verrà mai più meno. La risposta, per la verità, è della donna: perché l’Angelo al quale la Chiesa ci invita a guardare in questa giornata appare alle donne che si erano recate al sepolcro “portando con sé gli aromi che avevano preparato” per il corpo di Gesù calato dalla croce il venerdì e dopo la sosta del sabato ebraico. Le parole dell’Angelo suonano sbalorditive, inaudite: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato”.

L’annuncio centrale della fede si realizza in un incontro, suscita stupore, e muove a comunicare subito ciò che si è scoperto. “Tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo”. Ancora pieni di gioia per la Pasqua, siamo incoraggiati a tornare al cuore della scena, come se un giorno solo non bastasse. In questo lunedì protagonista è tutto il movimento generato dal dialogo tra Dio e l’essere umano che è dentro il messaggio di Pasqua ma che ha bisogno di un suo spazio, sebbene la definizione liturgica di questa giornata sia “Lunedì nell’Ottava di Pasqua” e l’Angelo sia piuttosto il nome popolare che la tradizione gli ha conferito, a sottolinearne il messaggio proprio.

Devozione, dunque, più che mistero di fede: un’estensione della Pasqua che non a caso popolarmente ha fatto di questo giorno la “Pasquetta”, una piccola Pasqua tutta per festeggiare uscendo dal sepolcro di ciascuno e mettendosi in movimento (la gita fuori porta, sospesa dalla pandemia come uscita fisica, ma non nel nostro intimo). Conseguenza di queste caratteristiche devozionali è il fatto che la Chiesa non preveda il precetto, ovvero il dovere per il credente di partecipare all’Eucaristia nel giorno della festa che ricorda la Pasqua (è ciò che fa ogni domenica dell’anno).

Ma questa giornata devozione alimentata dalla fede delle generazioni credenti ha come costruito un singolarissimo giorno supplementare di festa, che ha trovato anche la forma di una preghiera: la sequenza “Victimae Paschali Laudes”, che risale all’XI secolo e che popolarmente è nota per la domanda in rima a Maria (Maddalena, protagonista della commovente scena in cui è chiamata per nome dal Risorto) cui la Chiesa domanda “cos’hai visto per la via”. E allora, è bello recitarla e meditarla (anche nella versione originale in latino) in questo lunedì che prolunga la Pasqua con una tale forza che anche l’autorità civile ne ha riconosciuto – pressoché ovunque nei Paesi di radice cristiana – il valore di festa per tutti.

Alla vittima pasquale, s’innalzi oggi il sacrificio di lode.
L’agnello ha redento il suo gregge,
l’Innocente ha riconciliato noi peccatori col Padre.

Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello.
Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa.

«Raccontaci, Maria: che hai visto sulla via?».
«La tomba del Cristo vivente, la gloria del Cristo risorto,
e gli angeli suoi testimoni, il sudario e le sue vesti.

Cristo, mia speranza, è risorto; e vi precede in Galilea».
Sì, ne siamo certi: Cristo è davvero risorto.
Tu, Re vittorioso, portaci la tua salvezza.

Víctmæ pascháli láudes:

ímmolent christiáni.
Agnus redémit oves:

Christus ínnocens Patri

reconciliávit peccatóres.
Mors et vita duéllo

conflixére miràndo:
dux vitæ mórtuus, regnat vívus.
Dic nobis, María,

quid vidísti in via?
Sepúlcrum Christi vivéntis:

et glóriam vidi resurgéntis.
Angélicos testes,

sudárium, et vestes.
Surréxit Christus spes mea:

præcédit vos in Galilǽam.
Scímus Christum surrexísse a mórtuis
vere: tu nobis, victor Rex, miserére».

(Francesco Ognibene, in Avvenire, 1 aprile 2024)

«Nel nome

Che la risurrezione sia un evento non ascrivibile (solo) all’ordine della storia e della natura, ma più profondamente all’ordine della relazione tra l’uomo e Dio, lo attestano con forza anche le letture di questo nuovo giorno fra l’ottava di Pasqua. La franchezza con cui Pietro, mosso dallo Spirito, riesce a parlare alla folla radunata a Gerusalemme per il giorno di Pentecoste, si esprime persino nella libertà e nella capacità di saper coinvolgere nell’evento di risurrezione attraverso il delicato registro dell’accusa: «Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso›› (At 2,36). Se accusare è sterile – addirittura spietato – quando è fatto solo per condannare, possiamo dire che essere accusati può diventare esperienza pasquale quando il motivo del giudizio è tutto l’amore che si è manifestato nella croce del Signore Gesù. Quando l’amore, infatti, è veramente libero, non può che suscitare immediatamente liberazione e guarigione, come accade a quelle persone che si sentono «trafiggere il cuore» (2,37) alle parole di Pietro, invase da un incontenibile bisogno di fare qualsiasi cosa pur di entrare in contatto e in comunione con lo Spirito del Risorto. La proposta, del resto, è estremamente semplice e chiara: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo›› (2,38). Essere immersi nel nome del Signore crocifisso e risorto significa ammettere la totale complicità della nostra vita con il suo mistero di passione, morte e risurrezione. Vuol dire riconoscere che solo nel suo nome – cioè nell’incontro con la sua persona – tutto ciò che siamo può trovare comprensione, riscatto e redenzione.

Il vangelo ci racconta in quale altro modo il cuore trafitto può essere la premessa per giungere alla gioia della risurrezione: «Maria stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva» (Gv 20,11). Maria di Magdala sta cercando Gesù per «prenderlo›› e, forse, per imbalsamarlo nel sepolcro dei ricordi e della nostalgia. La sua risposta alla domanda angelica lascia intuire quanto il suo desiderio non sia altro che trovare e possedere l’amato Signore, sconfitto sulla croce e deposto nella terra: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto›› (20,13). Sono necessarie due conversioni a Maria per oltrepassare la conina di fuoco delle lacrime e riconoscere in chi le sta dinanzi non solo colui che sta cercando, ma anche tutta se stessa: «Maria!» (20,16). Soltanto dopo essere stata chiamata per nome, Maria può finalmente riconoscere e adorare il Risorto, compiendo la più difficile conversione dalla tristezza alla gioia: «Ella si voltò e gli disse in ebraico: “Rabbuni!” – che significa: “Maestro!”›› (20,16).

La parola di Dio contenuta nelle Scritture di oggi lascia intuire che non c’ë alcuna risurrezione possibile fino a quando il nome di Gesù non si congiunge al nostro nome, nella tenerezza di un amore disposto a tutto tranne che all’inganno del possesso. Il Risorto non è qualcuno da temere o da tenere, ma un volto da scoprire, nel quale riconoscere e accettare anche il nostro volto, con tutte le sue luci e le sue ombre. Dio si è immerso nella povertà della nostra storia per strapparci – dagli occhi e dal cuore -tutta la paura di guardare e andare avanti. Dopo la Pasqua, il Signore non è più davanti, come un’irraggiungibile meta. È dentro (il cuore) come Spirito che ferisce e fa ardere d’amore. È dietro (ciascuno di noi) come l’unico capace di percorrere il nostro desiderio profondo per orientarlo definitivamente verso il Padre e verso i fratelli: «Ma va’ dai miei fratelli e dì loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (20,17).

 

Signore risorto, il tuo nome ormai è quella croce nuda, quel sepolcro vuoto, segni della vita che hai strappato definitivamente ad ogni schiavitù e a ogni morte. Noi immersi nel tuo nome e tu immerso nella nostra povertà: svelaci il mistero dell’amore che tiene senza trattenere, che (si) dona senza temere, per condurci a diventare veramente fratelli» (Roberto Pasolini, Messa e preghiera quotidiana, marzo 2016, pp. 374-376).

«La chiamò per nome. È l’esperienza di Maria Maddalena, prima testimone del Risorto. Anche noi, incontrando Gesù ritroviamo il nostro vero volto, ci riqualifichiamo nella nostra identità. Fare esperienza del Signore è assaporare la liberazione dal male e dalla morte, ma anche dalla tristezza e dall’effimero. La comunione con Lui è la via d’uscita dalle strettoie in cui la vita ci rinserra. Come la Maddalena, anche noi siamo chiamati ad annunziare la sua resurrezione ai fratelli. Non puoi rinchiuderti in te stesso. Una vita da cristiano è una storia di ricca umanità, di servizio, di pace. Chi fa esperienza di Chiesa vuole condividere con il resto del mondo il gran dono d’essere amici del Cristo. La preghiera diventa la risorsa efficace attraverso la quale poter dialogare con Dio, come Maria nel giardino presso il sepolcro vuoto: non con un morto, non con una storia antica, ma con una persona viva. La salvezza entra dentro le vicende umane attraverso la nostra mediazione, resa efficace dallo Spirito del Risorto, che ci è partecipato».

«Maria di Màgdala rimane accanto al sepolcro e piange. La perdita dell’unico che l’aveva capita l’ha fatta correre e l’ha indotta a cercarlo. Noi troppo poco piangiamo la perdita del Signore! Maria è sconsolata. A tutti, ai due angeli e al giardiniere chiede di Gesù. È tutta tesa alla ricerca del Maestro, null’altro le interessa. Maria è esempio della vera credente che cerca il suo Signore. Lo chiede anche al giardiniere. Ella vede Gesù con gli occhi, ma non lo riconosce finché non viene chiamata per nome. È quel che accade anche a noi con il Vangelo. Non gli occhi ci permettono di riconoscere Gesù, ma la voce. Quel timbro, quel tono, quel nome pronunciato con una tenerezza che tante volte le aveva toccato il cuore, fanno cadere la barriera, e Maria riconosce il suo maestro. Ascoltarlo anche una sola volta significa non abbandonarlo più. La voce di Cristo (il Vangelo) non si dimentica; udita per un attimo, non vi si rinuncia più. La familiarità con le parole evangeliche è familiarità con il Signore: costituisce la via per vederlo e incontrarlo. Maria si getta ai piedi di Gesù e lo abbraccia con l’affetto struggente di chi ha ritrovato l’uomo decisivo della sua vita. Ma Gesù le dice: “Non mi trattenere … Va’ piuttosto dai miei fratelli”. L’amore evangelico è un’energia che spinge ad andare oltre. Maria fu ancor più felice mentre correva nuovamente verso i discepoli per annunciare a tutti: “Ho visto il Signore!”. Lei, la peccatrice, è divenuta la prima annunciatrice del Vangelo» (Vincenzo Paglia, 10-4-2007).

 

Si avvicinò…camminava con loro…domandò…spiegò…entrò per rimanere con loro…. I verbi della narrazione di Emmaus esprimono la pedagogia del Cristo, che si affianca, ascolta, interloquisce con i giovani di ogni generazione, ma si fa riconoscibile nell’atto di spezzare il pane della Parola e dell’Eucaristia. Non c’è Chiesa senza l’esercizio concreto della carità: a volte il suo nome è pazienza, altre interesse per le persone, altre ancora condivisione. Quando i discepoli di Emmaus lo riconoscono accanto a loro non indugiano, anche se è sera. Anche se avevano sperimentato la delusione e lo sconforto per aver visto il Crocefisso riprendono coraggio: ritornano sui propri passi, vanno a ripetere alla Chiesa il Vangelo della resurrezione e confermano i fratelli nella fede pasquale. Da quella volta antica avviene sempre così. Spesso tocca ai giovani tornare indietro per rinnovare la fede della comunità e riscoprire la funzione di sacramento che ha la Chiesa in questo mondo, segnato dal peso della storia.

«Quei due discepoli se ne tornano tristi al loro villaggio per riprendere la vita monotona di sempre. Certo non mancano motivi giusti per essere tristi: quante volte il Vangelo viene sconfitto, quante volte l’odio vince sull’amore, il male sul bene, l’indifferenza sulla compassione. Ma uno straniero – straniero alla mentalità comune del mondo – si accosta e inizia a spiegare loro le Scritture. Man mano che essi lo ascoltano, sempre più il loro cuore si scalda. Verso la fine del viaggio sale da questi cuori una preghiera semplice: «Resta con noi». Lo straniero resta, si mette a tavola e spezza il pane. A quel momento i loro occhi si aprono e riconoscono Gesù. Nella loro vicenda è descritto il modo dei discepoli di ogni tempo, anche del nostro, di incontrare il Risorto: ossia, ascoltando le Scritture e partecipando alla mensa eucaristica» (Vincenzo Paglia, 11-4-2007).

«In cammino

Le letture di questo giorno, in cui si prolungano la festa e la gioia della Pasqua, sembrano dirci concordi che il frutto più bello della risurrezione è la possibilità di rimettersi e di rimettere in cammino anche quando le circostanze cospirano contro ogni evidenza e speranza.

I due discepoli che si allontanano lenti e sfiduciati da Gerusalemme, «e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto›› (Lc 24,14), aprono infiniti spazi di identificazione per tutti noi, così abituati a prendere le distanze da tutto ciò che, ordinariamente ci fa soffrire o ci pone domande più grandi di quanto siamo disposti a rispondere. Gesù si avvicina a questa tristezza in cammino con molta discrezione, più che per irrompere come un fulmine nella loro vita, per rompere il velenoso monologo della rassegnazione: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?›› (24,17). Gli occhi restano «impediti a riconoscerlo›› (24,16), finché il cuore non arriva ad accettare il fatto che, nello scandalo della croce, non si è manifestato un intervento straordinario con cui Dio ha raddrizzato il corso della storia, ma si è definitivamente rivelata la necessità dell’amore: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?›› (24,25-26). Il mistero della Pasqua torna ad ardere nei nostri cuori ogni volta che permettiamo alla voce del Risorto di illuminare il senso e la prospettiva di ogni croce davanti a cui siamo fuggiti con orrore, spiegandoci che nel disegno di Dio non c’è posto per un amore che non sappia varcare la soglia del dolore per diventare perdono e misericordia:

«E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui›› (24,27). Il dono dell’eucaristia è il luogo dove, silenziosamente, siamo posti nella condizione di poter riconoscere colui che nel simbolo del pane non si stanca di immergerci nella logica – povera – dell’amore più grande: «Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero›› (24,31).

Gli occhi spalancati dalla gioia della risurrezione sono ciò che consente a Pietro e Giovanni di compiere i gesti di sempre, come quello della salita «al tempio per la preghiera delle tre del pomeriggio›› (At 3,1), con una rinnovata attenzione alla realtà. Sentendosi cercati e invocati da uno storpio, sdraiato a terra a chiedere l’elemosina presso la porta del tempio, i due apostoli gettano nella direzione di questo povero il prezioso tesoro del loro sguardo, favorendo l’occasione di un incontro: «Allora, fissando lo sguardo su di lui, Pietro insieme a Giovanni disse: “Guarda verso di noi”›› (3,4). Gli apostoli vengono subito corrisposti con lo sguardo carico di attesa e di speranza: «Ed egli si volse a guardarli, sperando di ricevere da loro qualche cosa›› (3,5).

La gioia pasquale si compie ogni volta che scegliamo di non oltrepassare troppo velocemente l’occasione di raggiungere e incrementare la vita di qualcuno che incrocia il nostro sguardo. Non solo per condividere il necessario per vivere, ma anche il «superfluo», indispensabile per ricominciare a cogliere la vita come un cammino possibile e desiderabile: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina!» (3,6). Incontrare il Risorto come il dono più grande, quello capace di farci tomare alla gioia e a una rinnovata fedeltà agli impegni della nostra vita, non può che trasformarci in sereni e generosi dispensatori della sua grazia, affinché – anche attraverso di noi – «gioisca il cuore di chi cerca il Signore» (Sal 104,3).

 

 

Signore risorto, il dono più grande noi lo vogliamo tenere in tasca, se non nell’armadietto del pronto soccorso, per ricorrervi ogni volta che un dolore o una fatica irrompono nella nostra vi e il prima istinto è di anestetizzarli subito. Facci accostare al Pane della tua vita non come dono da cui dipendere, ma da cui imparare l’amore che si fa mangiare» (Roberto Pasolini, Messa e preghiera quotidiana, marzo 2016, pp. 384-386).

«Finalmente Gesù appare agli apostoli. Siamo alla fine del giorno della resurrezione. Gesù al mattino presto è stato con le donne, ha poi passato il resto della giornata con i due di Emmaus e solo alla sera si presenta agli apostoli. Essi stavano chiusi nel cenacolo, per paura. Una paura che tutti conosciamo bene: quante volte chiudiamo le porte del nostro cuore per timore di perdere qualcosa! Ma Gesù ancora una volta entra e si mette in mezzo a loro. Non da un lato, ma in mezzo, al centro. E dice: «Pace a voi!». I discepoli pensano sia un fantasma. Hanno sentito prima le donne e poi i due di Emmaus, ma la paura è ancora più forte delle parole dei fratelli. L’incredulità, sembra dire l’evangelista, accompagna da sempre i credenti. E Gesù insiste nel rivolgersi a loro. È l’insistenza della Scrittura che continua a parlare a tutti noi. E poi Gesù mostra le mani e i piedi con le ferite, quasi a dire che all’ascolto deve seguire la misericordia; è necessario cioè toccare con le proprie mani le ferite presenti ancora nel mondo; è necessario andare incontro a chiunque soffre per poter comprendere cosa vuol dire la resurrezione» (Vincenzo Paglia, 12-4-2007).

La fede è unica e unico è l’amore, anche se i tempi sono cambiati rispetto a quelli della comunità post pasquale; i luoghi e le culture sono diverse. I segni della passione rendono credibile il Risorto. L’esperienza del dolore rende possibile anche agli uomini del nostro tempo di capire la sofferenza degli altri. Anche oggi prende il dubbio che non sia davvero il Signore accanto a noi, quando ci rendiamo conto che la sua grazia ci ha soccorso, che siamo stati beneficati senza nostro merito. È più facile farsi prendere dalla paura e pensare ai fantasmi, cioè confondere la fede con le illusioni. La logica di Gesù è invece la via dell’incarnazione: essere Emanuele, vicino ad ogni persona umana. Ancora una volta il mangiare insieme è il luogo dove la Parola di Dio viene resa comprensibile e si raccoglie il senso delle cose. Ne segue sempre la conversione dei cuori e il perdono dei peccati. Della vicinanza del Risorto accanto a noi, anche tu che mi leggi, sei chiamato a fare da testimone.

«Gli apostoli che avevano abbandonato le loro reti per diventare pescatori di uomini (Lc 5,10), tornano a essere pescatori di pesci. E ora, quando Gesù appare, senza che lo riconoscano, si ripete la scena dell’inizio. Anche questa volta hanno pescato invano per tutta la notte. È l’esperienza di un lavoro senza frutti, l’esperienza di pensieri, di preoccupazioni e di agitazioni che non approdano a nulla. Senza la luce del Vangelo è difficile operare e dare frutti. Ma con Gesù che si avvicina, sorge l’alba di un nuovo giorno. È il Risorto, ma non se ne sono accorti, non l’hanno riconosciuto. Sebbene stanchi e, comprensibilmente, sfiduciati gli danno tuttavia retta e gettano le reti dall’altra parte. E la pesca è abbondante, oltre ogni misura. E Gesù continua a mangiare con i discepoli come faceva prima di morire. Ma c’è un accento particolare. Gesù prende Pietro in disparte e gli chiede: «Mi ami tu più di costoro?». Non lo rimprovera del tradimento, desidera sapere se l’ama ancora. Non è tanto questione di purificare la memoria, quanto di rinnovare l’amore. Quel che Gesù vuole è che il sentimento di colpa non inaridisca l’amore. Per questo non glielo chiede una volta sola, ma tre volte. E per tre volte, dopo la risposta affermativa dell’amore, Gesù affida a Pietro l’incarico della cura del suo gregge. L’unica forza, l’unica energia che ci sostiene è l’amore per il Signore. E chi ama Dio ama e serve i fratelli» (Vincenzo Paglia, 29-6-2006).

Anche la Chiesa delle origini molte volte non lo riconosce. Pietro si rassegna a riprendere il posto che aveva nella povertà delle sue origini. Non ha ancora compreso che è chiamato da Dio a una missione, a farsi pescatore di uomini. La dimensione soprannaturale ci è poco congeniale; spesso troviamo difficoltà a praticarla. Non ci accorgiamo neanche noi che Gesù ci è veramente vicino. La decisione di Pietro di tornare a pescare è molto simile a quella normalizzazione, per cui la fede ad una certa età si assottiglia. Riprendono i gesti consueti del vivere, come se non avessimo incontrato Dio. Molte volte rileghiamo l’impegno dentro la Chiesa alla fase giovanile della nostra vita, quasi poi sia necessario immergersi nel lavoro e magari nella durezza del quotidiano, con le sue amarezze e difficoltà. Guai se per grazia provi a buttare la rete da un’altra parte e ti accorgi che, malgrado la tua poca fede, la vita ti si riempie di risultati insperati. Pasqua è l’occasione per ricominciare da capo. Se stai attento, riconoscerai il Signore vicino: puoi riprendere a dialogare con il Risorto anche se è tanto tempo che non lo fai.

«Nicodemo, un fariseo che è alla ricerca della verità, di notte incontra Gesù e con questo Maestro, che riconosce come venuto da Dio (Gv 3,2) intesse un colloquio di cui non sempre riesce a comprendere con chiarezza i passaggi. Gesù lo invita a ripensare in modo diverso alla sua esistenza, a rifare un cammino a ritroso per ritornare in un luogo ove può nascere a una vita nuova; “Se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio. […] se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio›› (3,3.5). “Come può nascere un uomo quando è vecchio?” (3,4), si domanda perplesso Nicodemo. No, non è possibile rinascere in questo modo. C’è un solo modo per nascere nuovamente: nel cuore. Quando il cuore cambia, quando è trasformato da quel soffio più impetuoso e libero del vento, dallo Spirito (cf. 3,7-8), allora si inizia una vita nuova. La nascita di cui parla Gesù avviene a un livello profondo, al livello della fede. Si rinasce quando si crede, quando lo sguardo si stacca dalle “cose della terra”, si alza verso le “cose del cielo” (3,12) e si colloca nel luogo della vita, nel luogo della luce pasquale, nel luogo di una gioiosa comunione con quel Dio che ci è stato rivelato in Gesù. E cosa contempla il nostro sguardo? “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (3,14-15).

Il nostro sguardo contempla due eventi della storia, sacra, eventi molto lontani tra di loro nel tempo e, apparentemente, nel significato. Un misterioso segno elevato in alto ha la forza di guarire le ferite mortali provocate dal morso di serpenti velenosi; un patibolo di ignominia, la croce, sul quale è appeso un innocente spogliato delle sue vesti, nudo e ferito, sembra invece destare orrore e disgusto. Eppure questi due segni sono posti in alto e devono essere visti per essere compresi (per “guarire”). Ciò che sorprende è il secondo segno sul quale è appeso il Figlio dell’uomo: deve essere “innalzato” perché solo così può donare la vita a chi ha il coraggio di fissarlo. Non si tratta più solo di guarigione da un morso velenoso, ma di vita, anzi di vita eterna. Il luogo della morte diventa il luogo della vita. È un paradosso: per avere la vita, per rinascere dall’alto è necessario guardare senza paura il Figlio dell’uomo innalzato. Perché? Perché in esso è racchiuso il segreto della vita vera, della nostra vita, il segreto della salvezza. Il Figlio dell’uomo innalzato e trafitto è il dono di Dio per il mondo. A noi tutto questo sembra assurdo: un dono deve essere sempre qualcosa di bello e gioioso. Ma, a ben guardare, ogni dono, per essere veramente gratuito, passa attraverso un luogo di morte, attraverso un distacco da sé. E il dono di Dio è la sua stessa vita: Dio, nel Figlio, rinuncia alla sua stessa vita per donarcela. Ed è questo dono che salva il mondo, noi, che ci apre alla vita vera. Solo cosi – ricorda Gesù a Nicodemo e a noi – possiamo iniziare un cammino di rinascita per entrare nel Regno. Custodendo quotidianamente il nostro sguardo rivolto al Figlio dell’uomo innalzato, allora impareremo a guardare con gli occhi di Dio tutte le nostre ferite, tutte le piaghe della nostra storia e della nostra umanità; la nostra vita avrà la possibilità di rinnovarsi, di seguire strade impensate, costruire rapporti nuovi. Allora, trasformati da quel vento impetuoso che è lo Spirito, non sarà più un’utopia quella comunità di credenti che vive nella comunione e nella condivisione che ha “un cuore solo e un anima sola”, in cui «nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva” e in cui “nessuno […] era bisognoso” (At 4,32. 34).

O Padre, trasformaci con il fuoco dei tuo Spirito e infondi in noi i sentimenti del tuo Figlio. Così, rinati a vita nuova saremo veramente liberi di amare: sapremo guardare ogni uomo con occhi di misericordia e di perdono, sapremo condividere ogni dono che Tu ci dai, sapremo guarire le ferite dei nostri fratelli con l’acqua viva della compassione che sgorga dal fianco trafitto di Cristo» (Adalberto Piovano, Messa e preghiera quotidiana, aprile 2016, pp. 57-60).

 

«O Signore, guarda con bontà a me che di fatto considero poco importante la fraternità. Io sono preoccupato che le cose “funzionino” e così trovo il pretesto di dimenticarmi che gli altri sono miei fratelli, quando addirittura non li strumentalizzo. Io sono preoccupato della mia salute e così mi dimentico che anche gli altri hanno i loro problemi, talvolta ben più gravi dei miei. Io sono preoccupato del bene da fare e spesso non mi domando se lo faccio in forma fraterna, se lo faccio da fratello a dei fratelli. Io sono preoccupato di portarti ai lontani e mi dimentico dei vicini.

O Signore, dammi un occhio e un cuore fraterno. Come sono lontano da tutto ciò! Sono lontano e il più delle volte non me ne accorgo nemmeno, perché non prendo sul serio la fraternità: è troppo poco gratificante, non mi mette in mostra, non accende la mia fantasia, non mi fa sentire un eroe. Per voler diventare davvero fratello e sorella del mio prossimo devi illuminarmi continuamente tu con la tua parola e il tuo Spirito, come hai fatto agli inizi della tua Chiesa» (Pier G. Cabra, Oratio, in Lectio divina per ogni giorno dell’anno, Queriniana, Brescia 2000, vol. 4, pp. 95-96).

 

«Il nostro Creatore e Signore dispone ogni cosa in modo tale che se uno volesse insuperbirsi per il dono che ha, si deve umiliare per le virtù che non ha. Egli dispone ogni cosa in modo tale che quando eleva uno per una grazia che ha ricevuto, per una grazia diversa lo sottomette a un altro. Dio dispone ogni cosa in modo tale che mentre tutte le cose sono di tutti, per una certa esigenza di carità, tutto diventa di ciascuno; e ciascuno possiede nell’altro ciò che non ha ricevuto, in modo tale che ciascuno umilmente offre in dono all’altro ciò che egli ha ricevuto. È quanto dice Pietro: “Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio gli uni degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio” (1 Pt 4,10)» (S. Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe).

 

«Il fine di una comunità non può essere quello di offrire ai suoi componenti soltanto un senso di benessere. Il suo scopo e il suo significato è piuttosto quello di far sì che tutti i membri possano spronarsi l’un l’altro, giorno per giorno, a percorre insieme un cammino nella fiducia, nella maturità, nella lealtà e nell’affettività; possano chiarire i malintesi che si verificano; possano risolvere i conflitti e soprattutto, possano radicarsi in Dio. Perché in una comunità possiamo alla lunga vivere bene solo se puntiamo continuamente il nostro sguardo verso Dio come nostra vera mèta e causa ultima della nostra vita» (Anselm Grün, A onore del cielo, come segno per la terra, Brescia 1999, p. 151).

 

«Che posto ha la fraternità nelle mie preoccupazioni? Che importanza riveste la costruzione di fraternità nella mia vita spirituale? Ho forse una spiritualità individualistica, dalla quale i fratelli e le sorelle sono praticamente esclusi?» (Pier G. Cabra, Meditatio, in Lectio divina per ogni giorno dell’anno, Queriniana, Brescia 2000, vol. 4, p. 95).

 

 

«Dio esprime il suo amore principalmente con la venuta del suo Figlio. Mai Dio era stato così vicino agli uomini come quando si è fatto uguale a loro. Quale prova potrebbe essere più grande della sua amicizia per essi e della grande considerazione per il loro destino, a volte molto più grande di quella che gli uomini stessi dimostrano per sé e per i propri simili. C’è una forma di falso amore per sé che in realtà è solo autoconservazione ed egoismo, l’esatto contrario del modo di essere del Figlio che ha considerato la propria vita un valore solo se spesa per gli altri e non conservata per sé. È questo amore, smisurato e gratuito, che getta come una nuova luce sull’esistenza degli uomini e delle donne, ne rivela gli angoli bui, le durezze di cuore, rivela il giudizio angusto che spesso immiserisce la nostra esistenza, rendendoci incapaci di portare i frutti buoni dell’amore e della misericordia. Il Figlio infatti non viene a condannare il mondo, non vuole schiacciarlo, anzi, la sua luce ne rivela la bellezza e le miserie, perché, coscienti del nostro bisogno e non più accecati dal buio dell’egoismo, cerchiamo in lui la via della vita vera» (Vincenzo Paglia, 18-4-2007).

 

 

«Venerdì – Mangiare la carne e bere il sangue

(Gv 6,52-59)

 “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”

Sono tanti i miracoli eucaristici in cui l’ostia ha sanguinato o è apparso impresso il volto di Cristo vivo. Tutti sanno del miracolo di san Gennaro che si verifica ogni anno; del reliquiario antico di secoli a Lanciano, con il sangue coagulato che sembra carne viva. Anche la scienza conferma che si tratta di fatti inspiegabili. Nella cattedrale di Orvieto si conserva il corporale macchiato di sangue, reliquia del miracolo avvenuto ad un sacerdote di Praga di passaggio in Italia, che celebrava la messa tormentato dai dubbi.

Però non è corretto intendere la parola “corpo” in modo, come dire, eccessivamente somatico, come se si trattasse solo di una parte della nostra persona, separata dall’anima. Nella Bibbia il termine “corpo” ha un significato più ampio. Nell’Antico Testamento Dio “assume un corpo” quando si rivela, quando diventa visibile, quando entra nel mondo. Nell’eucarestia il pane e il vino diventano il corpo e il sangue di Cristo, cioè Cristo è fra noi, realmente e interamente presente sull’altare con anima e corpo, con la sua divinità e umanità.

 

 

“Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue non avrete in voi la vita”.

 

L’espressione “bere il sangue” è forte, e può suscitare reazioni negative. C’è chi ha orrore del sangue, chi sviene alla vista del sangue. C’è qualcosa di atavico nel sangue, e i popoli antichi credevano che nel sangue fosse la sede dell’anima, perché sembrava che la vita fuggisse via con l’effusione di sangue. Ma il sangue è simbolo anche di una unione forte, e infatti si parla dei rapporti familiari come di legami di sangue.

Sant’Ignazio di Antiochia usa quest’espressione: “mangiare il pane eucaristico e bere il vino significa entrare nel corpo e nell’anima di Cristo”. Gli autori moderni preferiscono evitare di parlare di corpo e anima come di fatti distinti e separati, e usano spesso l’espressione “essere, divenire dello stesso sangue di Gesù”. Con la santa Comunione, infatti, diventiamo parenti di Cristo nella vita eterna: Dio è il nostro vero padre, Maria la nostra vera madre, gli uomini nostri fratelli, perché in tutti circola lo stesso sangue.

 “Questo è il pane disceso dal cielo”

 

La manna, racconta il libro dell’Esodo (Es 16), cadeva dall’alto, era pane disceso dal cielo. I doni eucaristici, al contrario, sono frutto della terra e del lavoro dell’uomo. Succede qui qualcosa di simile a ciò che è accaduto nella creazione. Il corpo dell’uomo viene plasmato con la polvere della terra (Gen 2,7), ma la vita la “soffia” Dio stesso. Gesù come Figlio dell’uomo proviene dalla stirpe di Davide, dal genere umano, ma come Figlio di Dio è disceso dal cielo. L’eucarestia è il pane che proviene dai nostri campi, ma Cristo che è presente in essa viene a noi dal cielo.

Per un’antica tradizione che riflette i testi liturgici, attorno al tabernacolo si rappresentano degli angeli: secondo la Bibbia essi appaiono dove c’è Dio, dove il cielo è sulla terra» (Špidlík Tomáš, Il Vangelo di ogni giorno. Riflessioni sul vangelo feriale. II. Tempo di Quaresima e Pasqua, Lipa, Roma 2001, pp. 141-143).

.

 «La sinagoga è piena di gente e la maggior parte dei presenti guarda Gesù in modo malevolo: «Come può costui darci da mangiare la sua carne?». Parlano così perché non intendono abbassarsi a chiedere ad uno che pensano sia loro pari, non vogliono umiliarsi a confessare la loro fame, a tendere la mano come fanno i poveri e i mendicanti. Chi è sazio non chiede, chi è pieno di sé non si piega. In verità, anche se sazi e circondati di beni, di cibo e di parole, abbiamo fame, fame di felicità, fame di amore. E forse i poveri possono esserci maestri nel chiedere e nello stendere la mano. Essi manifestano quel che noi siamo: mendicanti di amore e di attenzione. Hanno fame i poveri, e non solo di pane, ma anche d’amore, e così noi. Gesù dice a tutti: «Se qualcuno mangia di questo pane, vivrà in eterno». Per avere la vita non basta volere, non basta capire, è necessario mangiare. Bisogna diventare mendicanti di un pane che il mondo non sa produrre e ovviamente non sa dare. Come i poveri che chiedono pane, così siamo noi quando ci raccogliamo alla mensa eucaristica: essa anticipa il cielo sulla terra. Qui troviamo ciò che sfama e disseta per l’eternità. Gesù stesso, che ha camminato con i discepoli lungo i giorni della settimana, si ferma e mangia con noi come con i due discepoli di Emmaus» (Vincenzo Paglia, 5-5-2006).

 

 

«Gv 14,1-12

“Non sia turbato il vostro cuore”. Mica facile.
Nell’attuale contesto, poi, con le prospettive che ci possono balenare davanti, vale la pena di capire bene questo invito di Gesù.
Nella nostra lingua il turbamento indica un’attitudine interiore – e, infatti, si parla del cuore – ma il verbo greco parla più del risultato di uno scossone che di un atteggiamento, per cui sarebbe uno sbalestramento o un crollo di punti di appoggio dovuto allo sconvolgimento dell’assetto.
Quale sarebbe il problema che produce tale caos? Lo rintracciamo nella rassicurazione: “Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore”. Il problema che minaccerebbe il cuore sarebbe quindi quello che si gioca sul bisogno di una dimora, di un riparo sicuro.
Questo è il primo trauma dell’uomo, il suo primo pianto, vissuto nella nascita: si esce dal grembo e si affronta da subito, senza capirlo, il tema della destinazione: dove sto andando? Dove mi state portando? Che fine faccio?
Non è un problema dei neonati, ma di tutta la vita. Ancora oggi non so mai veramente dove vado a finire: che ne sarà di me? Tante cose mi spaventano.
Gesù parla subito del Padre, perché è nella Sua casa che c’è la risposta alla nostra inquietudine nativa, come dice il salmo: “Solo in Dio riposa l’anima mia” (Sal 62,2).
Ma questa bella cosa può anche suonare astratta e lontana. Ed è qui forse la cosa più importante, perché questa dimora non è solo una mèta, e già non sarebbe poco, ma di più: “Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me”.
Non si tratta di un viaggio da dover fare nostro, come un valico da superare con le nostre povere risorse; Gesù ne parla come di un’opera sua: tornerà a prenderci e ci porterà con Lui.
Sono due maniere di intendere la nostra vita: una lunga prova di forza per procurarsi un riparo sicuro, oppure giorno per giorno lasciarsi prendere e portare al Padre. Tutto quel che ci accade è perché il Signore ci sta portando nella sua casa. Tutto. Dio si può servire delle cose più disparate, anche di una malattia.
Ma il Signore aggiunge che di questa casa dalle molte dimore noi conosciamo il sentiero. Tommaso, il “didimo” – che vuol dire “gemello” – colui che deve sempre verificare se una cosa è autentica, fa la più logica delle domande: “Non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via?”.
Ma Gesù ha altre strade per spiegare le cose: non ci dà una mappa, non ci consegna una scorciatoia.
La strada che ci indica è la stessa che percorre Lui. In un certo senso non è neanche il Calvario o il Santo Sepolcro il luogo del passaggio ma sempre e comunque la relazione con il Padre, a prescindere dal territorio.
Io conosco la via perché conosco il Padre, e tu conosci la via al Padre perché conosci me. Basta quello. Non è necessario aver memorizzato tutte le curve e i bivi.
Quando conosco Cristo, quando ho memoria di Lui, ora so quando si gira, dove ci si ferma, come si cammina. La regola è: restare con Lui, costi quel che costi.
Allora si arriva sempre» (Rosini Fabio, Di Pasqua in Pasqua. Commenti al Vangelo domenicale dell’anno liturgico A, San Paolo, Cinisello Balsamo 2022, pp. 126-128).


Io sono la via, la verità e la vita. Con queste parole di Gesù si sono confrontati tutti coloro che hanno preso sul serio il cammino di sequela e di imitazione di Gesù. Proviamo a spiegare con le parole stesse di Gesù il significato di queste immagini. Egli è la via nel senso che l’accesso alla comunione con Dio ci è data solamente da lui: Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Gesù si proclama come l’unica via possibile per raggiungere l’obiettivo dell’anelito religioso degli uomini di tutti i tempi. È lui la via per raggiungere il luogo ove egli va, cioè l’eternità. Si arriva al Padre solo per mezzo suo, perché solo lui ne ha rivelato il volto: Chi ha visto me ha visto il Padre (Gv 14, 9). Non sono solo le sue parole a consentirci l’accesso a Dio ma è lui stesso, che ha affermato di non essere solo il pastore che guida il gregge all’ovile (Gv 10, 1-18), ma anche porta d’accesso: Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo. Egli è la verità che libera l’uomo e lo rende veramente saggio: Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi (Gv 8, 31-32), perché la parola del Padre è verità (Gv 17, 17), perciò prega perché i suoi discepoli siano consacrati nella verità (Gv 17,17). E la grande verità che ci ha fatto conoscere è Dio, del quale ci ha rivelato il volto di Padre (Gv 17, 6). Tutti gli altri insegnamenti derivano da questa prima rivelazione, perché tutte altre parole da lui dette sono state rivolte prima dal Padre a lui. Egli è la vita, venuta nel mondo per essere la luce degli uomini (Gv 1, 4). Ci ha insegnato che la vita è un dono, che va vissuta solo nell’ottica del dono: Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici (Gv 15, 13). Con l’esempio della vite e dei tralci (Gv 15, 1-11) ci ha insegnato a rimanere attaccati a lui per non morire. Alla Samaritana ha detto di essere lui la vera acqua che disseta e che fa zampillare in chi la beve una sorgente di vita (Gv 4, 14). Alla folla che aveva mangiato il pane della moltiplicazione dice si essere il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno (Gv 6, 51).



«Io sono la via (Gv 14,1-6)

Io sono la via
La vita spesso si paragona ad un cammino. Così era per i Semiti, popolo nomade frequentemente in cammino.
Perciò il capo della carovana doveva essere una persona esperta, degna della fiducia di tutti. Il tema tipico dell’Antico Testamento è Dio che conduce il suo popolo sulla via della propria storia, direttamente o per mezzo di un angelo o dei suoi rappresentanti sulla terra. Il ricordo dei giorni vissuti con Dio durante l’esodo dall’Egitto dà origine alla festa dei tabernacoli.
Nel Nuovo Testamento san Giovanni Battista annuncia un nuovo esodo: “Preparate la via del Signore” (Lc 3,4). Gesù è il nuovo Mosè, ma annuncia la sua missione con parole più radicali: non parla più di “nuove vie”, ma di un cammino in cui lui stesso è la via: “Io sono la via”. Come comprendere questa parola? Egli ci conduce al Padre per mezzo della sua umanità, dell’esempio della sua persona. Non c’è altra strada per arrivare a Dio se non attraverso di Lui.

La via e la guida

Nel mondo moderno le strade hanno una grande importanza; l’industrializzazione, il commercio, il benessere non sono pensabili senza di esse. Le carte stradali disegnano la rete di strade che percorre tutti i paesi, e chi si mette in viaggio può studiare in anticipo il percorso con tutti i dettagli. Allo stesso modo un giovane prudente che vuole decidere per il proprio futuro potrebbe programmare le tappe del tragitto che lo aspetta: prima gli studi, poi il lavoro, poi una famiglia.
Programmare è saggio, ma non sempre corrisponde alla vita reale. Certe volte sembra che la Provvidenza si prenda gioco di noi, ciò che ci aspettavamo non arriva o non riesce, e le carte vengono mescolate. Ma c’è qui un grande insegnamento per la vita.
Il nostro cammino non è una mappa piena di autostrade, il nostro cammino è Cristo vivente: con una persona viva non può esserci un programma fatto unilateralmente una volta per sempre, ma solo un dialogo continuo e fiducioso. Solo così le imprevedibili esperienze della vita non ci deluderanno mai, ma diventeranno una gioiosa sorpresa preparata da un amico.

Compagno di via

Si racconta che durante una spedizione polare la carovana avesse smarrito la strada; per paura di perdere qualcuno, vennero contati i partecipanti. Ma c’era qualcosa di strano e inspiegabile. Ogni volta che si provava a contare, ce n’era uno in più.
Nella Sacra Scrittura c’è un racconto analogo. Il re Nabucodonosor fece gettare nella fornace ardente tre giovani, ma poi, quando li andava a contare, risultavano quattro. Quel quarto aveva l’aspetto del Figlio di Dio (Dn 3,92).
In senso mistico questi racconti corrispondono alle esperienze della nostra vita. Quando ci sentiamo abbandonati, quando abbiamo perso la strada, stringiamo i denti e cerchiamo di contare solo sulle nostre forze. Ed ecco che con sorpresa ci rendiamo conto di non essere soli. C’è qualcuno che ci sostiene, così vicino da identificarsi con noi stessi. Perciò può dire san Paolo: “Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). E di qui la conclusione: “Tutto posso in colui che mi dà la forza” (Fil 4,13)» (Špidlík Tomáš, Il Vangelo di ogni giorno. Riflessioni sul vangelo feriale. II. Tempo di Quaresima e Pasqua, Lipa, Roma 2001, pp. 155-157).

Proviamo a riflettere sulla pace che Gesù ci lascia e che sostiene non essere quella che dà il mondo. Ricordiamo un’altra affermazione di Gesù: Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada (Mt 10, 34). La spada che egli ha portato dipende dal fatto che la scelta di seguirlo comporta alcune esigenze, che provocano necessariamente divisioni. Egli parla infatti di un amore privilegiato ed esclusivo nei suoi confronti sino a mettere al secondo posto anche gli affetti più santi, come quelli verso i genitori e i parenti tutti. La priorità della sua sequela va affermata anche nei confronti della propria vita, per cui la vita si trova solo se la si perde (Mt. 10, 37-39). Allora la pace che ci dona il Signore è la serenità che nasce dall’incontro con lui, e perciò dall’amicizia che egli ci dona (Gv 15, 15), dalla certezza che noi vinceremo il mondo, cioè il male, anche se lui non ci garantisce che il male non si accanirà contro di noi (Gv 15, 18-19). Tutt’altro, perché ai suoi discepoli ha profetizzato persecuzioni e lotte, proprio perché discepoli suoi e perciò compartecipi della sua stessa vita (Gv 15, 18-21). Gesù conclude il discorso nel Cenacolo, dopo l’ultima cena, prima di iniziare la grande preghiera al Padre, con queste parole: Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazioni nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo (Gv 16, 33). Le tribolazioni del mondo hanno diversi volti: la lotta interiore per il bene, la contrapposizione al male che domina nelle strutture di peccato che l’uomo crea, le persecuzioni reali contro i discepoli. Dinanzi a tutte queste lotte Gesù garantisce la pace della comunione con lui, che dà la certezza della vittoria. Questa è la pace che solo lui può dare e non il mondo.

 


«Questo brano evangelico si situa nel discorso di commiato di Gesù dai suoi discepoli. Alla conclusione del lungo periodo vissuto con essi, il Signore si rende conto che è un distacco difficile e doloroso, e per questo parla della pace che lascia loro come in eredità. Non una pace qualunque, ma quella che lui stesso, il Signore, vive, cioè quella che nasce dalla confidenza nel Padre, dalla certezza di non essere soli, dalla fiducia di non veder mai mancare il sostegno e la consolazione di un Dio che per primo si è mosso incontro agli uomini. “Vado e tornerò a voi” dice Gesù, apparentemente contraddittorio. Eppure l’ascesa la cielo per stare col Padre significa anche che il Signore resterà più vicino a tutti gli uomini, ovunque essi siano, e non lascerà mai nessuno solo, una volta che i discepoli saranno dispersi ad annunciare il Vangelo in tutti gli angoli della terra. Questo è confermato dal fatto che l’allontanamento di Gesù non è frutto Dio una mancanza di amore, non è il tradimento a cui sono abituati gli uomini, anzi è frutto di un amore più grande, proprio perché “bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato”. Obbedire al Padre è allora il segno di accettare umilmente di far parte di un disegno di amore per gli uomini che supera le nostre capacità e ci rende capaci di sentimenti e azioni grandi e vere» (VINCENZO PAGLIA, 16-5-2006).

Gesù da una parte ha anticipato agli apostoli le possibili sofferenze legate alla sua sequela, dall’altra ha anche garantito che esse non potranno mai far perdere la pace e la serenità interiore che il discepolo sperimenta, perché unito a lui. Ecco le parole di assicurazione: Vi ho dette queste cose perché abbiate pace in me. Il discepolo non può lasciarsi dominare dalla paura; la sua pace interiore non potrà mai essere turbata dalle lotte e dalle persecuzioni, perché egli sa che Dio non permetterà mai che quanti hanno fiducia in lui possano essere provati oltre le loro forze. S. Paolo, in riferimento a questo tema, è chiaro nel suo insegnamento: Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla (1 Cor 10, 13). E in un altro passo, poi, ci ricorda che Dio è Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione (2 Cor 1, 4). Non dobbiamo temere allora le difficoltà, le prove, le contrarietà, le tentazioni, le stesse persecuzioni. Oltre a non toglierci la pace interiore, che scaturisce dalla nostra comunione con Dio, esse saranno sconfitte da noi. 

 

 

I discepoli hanno la presunzione di aver capito tutto. Poiché Gesù ha aperto loro il suo cuore, rivelando la bellezza della vita col Padre che gli viene offerta, credono di possederla già. Il Signore ancora una volta ha pietà di loro. Non li condanna alla loro arroganza e non lascia che rimangano schiavi del presuntuoso credersi arrivati. Li mette di fronte alla loro debolezza, alla fragilità della loro vita che di lì a poco li farà temere per se stessi e fuggire davanti alla minaccia di essere coinvolti nella passione del loro Maestro. Anche questo è un segno della sua misericordia. Li riporta infatti alla loro dimensione reale perché solo riconoscendo il proprio bisogno potranno accettare l’aiuto che è loro offerto. È questa infatti la pace vera: non il credere di essere esente da ogni problema, ma sapere che il Signore è pronto a soccorrerci in ogni situazione, per quanto grave e miserevole possa essere. E di certo possiamo aver fiducia nel suo potere buono che ha già vinto in modo definitivo ciò che teneva gli uomini e le donne soggiogati, la morte. Essa non è più l’ultima parola, ma è la tribolazione attraverso cui passare per incontrare la Resurrezione alla vita nuova.

 

È bello e confortante sapere che Gesù ha pregato anche per noi poco prima che iniziasse la sua azione sacrificale. Noi siamo tra quelli che hanno creduto sulla parola degli apostoli, che ci hanno parlato di lui ed hanno attestato la sua risurrezione. Questa stessa fede noi la trasmettiamo a chi viene dopo di noi e crederà sulla base della nostra testimonianza. Cosa chiede il Signore per noi: il dono dell’unità nella testimonianza della fede: Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. L’unità per la quale Gesù prega non è affidata alla volontà dell’uomo, fondata su emozioni e sentimenti, ma solo sul fatto che i discepoli hanno conosciuto in lui l’inviato del Padre, che ha aperto agli uomini l’accesso al divino. Alla base c’è la consacrazione nella verità, che egli aveva già chiesto al Padre. Ecco perché desidera la perfezione dell’unità fondata non solo sulla somiglianza, ma, ancora di più, sulla partecipazione alla sua unità con il Padre: siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità. Questa unità, che nasce con il battesimo, si alimenta con i sacramenti e la vita di preghiera, sotto la guida del magistero della Chiesa.

 

 

 

Nell’ora drammatica che precede la sua passione, il pensiero di Gesù va oltre la propria situazione e si allarga fino a comprendere coloro che in ogni tempo crederanno al Vangelo. Le mura del cenacolo in cui si trova con i dodici sembrano cadere e agli occhi di Gesù si presenta una numerosa schiera di uomini e di donne provenienti da ogni parte della terra, in cerca di consolazione e di pace. Gesù prega per questo vasto popolo e chiede al Padre che «siano perfetti nell’unità». Sa bene che lo spirito della divisione li distruggerebbe. Chiede perciò l’impossibile: che tutti abbiano la stessa unità che esiste tra lui e il Padre. L’amore esagerato di Gesù chiede l’impossibile, perché sa che il Padre, come lui, ama senza limite gli uomini. Nel dolore di quell’ora estrema sente la responsabilità del tanto che resta ancora da fare: tanti uomini e donne ancora da raggiungere, tanti bisogni a cui si deve ancora rispondere. Per questo vuole proteggere i suoi discepoli e unirli alla propria vocazione: loro continueranno il lavoro per il quale è stato mandato dal Padre.

La triplice richiesta di Gesù a Pietro se lo amasse, è stata sempre interpretata come una riparazione che egli vuole provocare in Pietro per il suo triplice rinnegamento (Mt 26, 69-74), che lui stesso gli aveva profetizzato (Mt 26, 33-35). Pietro aveva già pianto amaramente per questo suo tradimento (Mt, 26-75). Ma Gesù, al momento di affidargli la guida della Chiesa, chiede una triplice prova di amore, per cui Pietro rimase addolorato, perché forse ne intuì la motivazione. Quali insegnamenti per noi? Il peccato è un rifiuto dell’amore di Dio, per cui il perdono deve essere frutto di un ritorno a lui, che deve essere nuovamente amato sopra ogni cosa. Della donna peccatrice che gli aveva lavato i piedi con le lacrime, Gesù ha detto: Le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato (Lc 7, 47). Possiamo sempre sperare nel perdono di Dio, purché la nostra conversione sia vera. L’amore cancella il peccato a tal punto che Gesù conferma a Pietro la promessa di guidare la sua Chiesa, come gli aveva promesso in altra occasione (Mt 16, 18-19). Nessuno mai deve sentirsi escluso dall’amore di Dio. Dinanzi alla nostra vera conversione Dio dimentica ogni nostro peccato.

 

 

«Gesù interroga Pietro sull’amore. Sa che ciò che lo terrà legato a lui per sempre infatti non potrà essere il senso del dovere o la forza di volontà, ma solo il desiderio di ricambiare col suo affetto l’amore sconfinato ricevuto. Il Signore lo interroga tre volte di seguito, come a dire che è la domanda essenziale, che bisogna porsi sempre, ogni giorno. È questa infatti la domanda di fondo che come riassume ogni Parola pronunciata da Dio: «Mi ami tu?». La risposta di Pietro è dapprima orgogliosa, addolorata che il Signore non si fidi della sua parola. Ma poi l’insistenza del Maestro vince la sua resistenza e mette a nudo la sua debolezza, facendogli sentire forte il bisogno di affidarsi, ancora una volta, a lui per imparare cosa vuol dire veramente voler bene. Le parole che seguono sono come uno squarcio sul futuro di Pietro. Quell’uomo troverà finalmente la sua solidità, che credeva di possedere già nella sua forza d’animo, nell’affidarsi totalmente al Signore, nel lasciarsi guidare da lui per giungere lì dove neanche immaginava. Così si realizza la profezia di un pescatore che riuscirà ad attirare con le reti del Vangelo folle di uomini al Signore» (Vincenzo Paglia, 2-6-2006).