Commento alla liturgia della Parola tempo ordinario

«Mc 2,13-17
Nei primi tempi della sua vita pubblica, Gesù alterna discorsi e miracoli, che confermano le sue parole, ma mette anche a punto la chiamata dei primi apostoli. È il caso del Vangelo di oggi in cui chiama Levi, un daziere, che era al banco delle imposte. Questo discepolo aveva due nomi, Levi e Matteo, il primo degli evangelisti, che conosciamo abitualmente col nome di Matteo, che non solo accetta la chiamata del Maestro, ma lo invita anche a pranzo a casa sua. La chiamata di un daziere e soprattutto il fatto che Gesù vada a mangiare nella casa di uno “Strozzino” fa meravigliare molta gente, ma Gesù lancia una sentenza, valida per la Chiesa sempre: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”, per far capire che quel che occorre è accogliere l’invito a seguirlo e cambiare strada.

Il pubblicano Levi, inaspettatamente convocato da Gesù a “prendere parte” (Eb 4,15) all’esperienza del discepolato, con tutta probabilità sarebbe pronto a sottoscrivere la forte affermazione della Lettera agli Ebrei circa la potenza nascosta nel Verbo di Dio: “Fratelli, la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore” (4,12). Se questa descrizione di come la parola di Dio sia in grado di distruggere e (ri)edificare il mistero della nostra umanità può essere riferita a ogni evento in cui lo Spirito Santo agisce e trasfigura la realtà, la sua applicazione alla vocazione di Matteo è davvero sorprendente. Anzi, potremmo anche dire che è la chiave necessaria per non fraintendere il gesto di un uomo ancora immerso nei suoi peccati, come se un atto eclatante possa essere il segno di quella svolta radicale che né Dio desidera, né la nostra umanità è in grado di compiere una volta per tutte: “Passando, vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: seguimi. Ed egli si alzò e lo seguì” (Mt 2,14).
L’immediata adesione all’invito di Gesù non deve essere apprezzata tanto come la capacità di prendere improvvisamente la vita e gettarla in una nuova direzione, conforme e gradita allo sguardo di Dio. Questa aspettativa di cambiamento brusco e definitivo, con cui spesso ci illudiamo di poter stare meglio e di progredire affrancandoci da ferite e difetti, è incompatibile con il criterio dell’incarnazione. Del resto, il cammino di Matteo/Levi e degli altri discepoli – secondo la concorde narrazione dei quattro vangeli – ci impedisce di credere che la conversione al vangelo possa realmente esprimere il suo profilo migliore all’inizio della “sequela Christi”, ma ci invita piuttosto a intenderla come il frutto di un graduale e sofferto cammino di resa alla grazia di Dio.
La tempestività con cui Levi risponde all’appello di Gesù va colta dunque soprattutto come la capacità di intuire il tempo favorevole del passaggio di Dio e di approfittarne senza paura e senza esitazioni, cosi come l’autore dell’epistola invita a fare: “Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno” (Eb 4 16)
La straordinaria adesione di Levi alle prerogative del vangelo è l’occasione di verificare quanto siamo disposti ad accettare che, al di là dei legittimi ruoli e delle infinite maschere con cui procediamo nel viaggio della vita, nulla di ciò che in realtà siamo “possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto e nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto” (4,13) Papa Francesco, nell’anno giubilare, ha voluto ricordare ai sacerdoti proprio l’importanza di saper rimanere in contatto con questa povertà interiore in cui avviene l’incontro con la misericordia del Padre: “E ognuno di noi può cercare o lasciarsi portare a quel punto ove si sente più miserabile. Ognuno di noi ha il suo segreto di miseria dentro… Bisogna chiedere la grazia di trovarlo” (FRANCESCO, Meditazione ai sacerdoti, 2-6-2016). Bisogna però anche mantenere “ferma” (Eb 4,14) e piena la fiducia nell’incarnazione del Verbo, e non dimenticare che il motivo per cui siamo in fuga da noi stessi – la nostra irriducibile e adorabile povertà – è il medesimo motivo per cui Dio non si stanca di cercarci e trovarci: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare ì giusti, ma i peccatori” (Mt 2,17).

Signore Gesù, la tua parola è potente perché svela la verità, la tua voce è irresistibile perché chiama fuori dalla vergogna di essere miseri, il tuo sguardo ci avvolge di compassione come un abbraccio. Dona a noi, che fuggiamo la nostra povertà e desideriamo la tua, la piena fiducia di avere ancora davanti tanta strada e tanto tempo per arrenderci al tuo amore» (ROBERTO PASOLINI, Piena fiducia, in Messa e preghiera quotidiana, gennaio 2017, pp. 146-149).

«Rispondendo a questi uomini, incapaci di confrontarsi seriamente con colui che stanno accusando, Gesù fa compiere loro un originale cammino, ben diverso da quello che caratterizzava le loro sterili dispute attorno alla Legge. E il primo passo è proprio un confronto con quella parola che loro pensano di conoscere profondamente. “Non avete mai letto…” (Mc 2,25): proprio quella parola riportata come giustificazione della loro accusa, li mette in contraddizione. Ma il caso citato (cf. 1Sam 21,2-7) non è semplicemente un episodio che dimostra la possibilità di un’eccezione nella Legge. Gesù ricorda ai farisei la Scrittura per richiamare loro un criterio fondamentale: tutto deve essere sempre sottoposto al discernimento della parola di Dio, nella quale si rivelano la volontà stessa di Dio e il suo progetto di alleanza. Ed è alla categoria dell’alleanza che ogni precetto deve essere ricondotto, a quella benedizione che Dio ha donato ad Abramo e alla sua discendenza (cf. Eb 6,14), a quella fedeltà che rende la promessa di Dio irrevocabile ed eterna (cf. 6,17). Riportato alla sua origine, il sabato allora rivela una verità fondamentale che Gesù esprime con questa parola: “ll sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato” (Mc 2,27). Quel tempo che Dio lascia libero affinché l’uomo possa riprendere coscienza della sua relazione con colui che l’ha creato e scoprire che tutto è dono, è un tempo offerto per l’uomo stesso, un tempo che permette all’uomo di riscoprire la sua dignità, l’essere a immagine di Dio. Non è possibile un conflitto tra Dio e la sua immagine custodita nell’uomo e se, eventualmente, il riposo del sabato può favorire questo contrasto, allora esso deve essere superato. Dio vuole sempre la vita per l’uomo e anche il sabato deve testimoniare questa vita donata.
E infine Gesù fa un’ultima affermazione, la più sconvolgente, quella che mette fine ad ogni contestazione: “Il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato›” (2,28). Quella parola che rivela la volontà di Dio e alla quale i farisei sono rimandati, ora acquista il suo senso pieno e visibile: è Gesù stesso, il Figlio obbediente, la Parola che era fin da principio e per mezzo della quale tutto è stato creato, a comunicare ciò che Dio vuole e dunque anche il vero senso del sabato. Non esiste un tempo per Dio e un tempo per l’uomo, perché il tempo è tutto di Dio (lui è “signore del sabato”) ed è lui a donarlo tutto all’uomo. E Gesù stesso è il tempo che Dio perde per l’uomo e nel quale l’uomo si sente pienamente libero e realizzato. Davvero è lui quell’ “àncora sicura e salda per la nostra vita” (Eb 6,19) che ci guida al cuore stesso di Dio.
Cristo, tu ci hai liberati da ogni giogo, perché in noi la libertà ci guidasse alla vera obbedienza e a comprendere che solo in te possiamo trovare riposo e pace. Il tuo giogo dolce e leggero ci aiuti a comprendere qual è la tua volontà per essere veramente liberi» (ADALBERTO PIOVANO, Messa e preghiera quotidiana, pp. 181-182).

«Egli è Signore del Sabato
Lettura
Ancora una volta Gesù è aspramente criticato dai farisei. Ma stavolta non criticano un gesto fatto da Lui, bensì dai discepoli. A partire dalle sacre tradizioni si era imposta una lettura molto rigida della norma del riposo sabatico; era proibito qualsiasi genere di operosità. Perciò, aver visto i discepoli raccogliere qualche spiga mentre attraversavano un campo di grano, fu semplicemente l’ennesima occasione per mettere Gesù in difficoltà. L’obbedienza all’obbligo del riposo, col passar del tempo, era diventata una vera e propria “gabbia” per la vita sociale, e perfino per l’esercizio della carità nelle relazioni.

Meditazione
Gesù non è venuto a darci nuove leggi alle quali obbedire, non erano e non sono necessarie. Il Decalogo era ed è più che sufficiente. Certo, quando si trovava con loro nel Cenacolo, Gesù aveva parlato ai Dodici di “un comandamento nuovo”: amare come Egli ha amato. Ma per amare come Egli ci ha amato, cioè fino a dare la vita per noi, occorre che noi stessi ci mettiamo nelle sue mani e lo lasciamo operare in noi, che gli permettiamo di rendere il nostro un “cuore nuovo”. Dunque, non si tratta di nuove leggi da osservare, ma del fatto che siamo invitati, innanzitutto e soprattutto, a costruire e a ricostruire sempre da capo, con gioia e convinzione, una relazione con Lui, che sia bella, profonda, coinvolgente, che gli permetta di entrare nella nostra vita e di cambiarla dal di dentro. Solo cosi permettiamo al Signore di plasmare in noi un cuore nuovo; un cuore che, se osserva la legge di Dio, non lo fa perché pensa di maturare un diritto al premio, né perché ha paura delle punizioni e vuole assicurarsi di evitarle, ma perché sa che nella legge divina, riassunta felicemente nell’amore verso Dio e verso il prossimo, l’uomo sperimenta la vera felicità. Una felicità che non è fugace, legata al momento vissuto, ma è proiettata verso l’eternità. E di questa eternità, l’attimo presente è già anticipo, da gustare in pienezza, senza incertezze, senza paure, ma anche senza rigidità che non hanno alcun senso. La legge è stata fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge. Gesù ci ha resi uomini liberi e perciò veramente felici!

Preghiera:
Signore Gesù, grazie perché con il dono della tua Parola di verità, e soprattutto con il sacrificio della tua vita sulla croce, ci hai liberati da ogni schiavitù: innanzitutto dalla schiavitù del peccato, ma anche dalla schiavitù di noi stessi, dalla pretesa di fondare la sicurezza della salvezza sulla sola osservanza della legge, che non ci porterebbe in alcun modo a cambiare il nostro cuore, per renderlo sempre più simile al tuo. Cambia il mio cuore, Gesù, ti prego, e rendilo davvero capace di “dare carne quotidiana” alla tua Parola.

Agire:
Cercherò oggi di mantenere un comportamento accogliente verso qualcuno “che si comporta male nei miei confronti» (LUIGI MANSI, Egli è Signore del Sabato, in Messa e meditazione 2020, 1, pp. 180-181).

«Con il lavoro ci guadagniamo con il sacrificio ciò che ci serve per vivere. San Giovanni Crisostomo si chiedeva se anche Adamo in paradiso lavorasse. Si risponde di sì, perché un uomo non è uomo senza il lavoro. Ma in paradiso il lavoro non era un obbligo o una spiacevole fatica, Adamo lavorava per migliorare, per perfezionarsi: con la nostra mentalità diremmo che si divertiva, giocava. Il lavoro non era ancora stato maledetto a causa del peccato
Dopo, invece, il lavoro è diventato costrizione, mancanza di libertà, violenza e pericolo. Cristo che ci libera dal peccato, opera anche la redenzione del nostro lavoro dalla maledizione, affinché diventi nuovamente libero e gioioso.

Stendi la mano!
L’incapacità di lavorare può dipendere da un fattore fisico: una mano fratturata, o paralizzata. Ma può dipendere da un motivo psicologico: la pigrizia patologica, la depressione, una volontà debole Nella letteratura mondiale è ben noto il romanzo di I. A. Goncarov, “Oblomov”, un uomo che neppure l’amore per una donna riesce a sollevare dallo stato di pigrizia in cui vive, e che per pigrizia finisce per sposare la padrona di casa che non ama, mentre la donna che ama, Olga, va in sposa ad un suo amico. Dal romanzo deriva il termine ormai diffuso di “oblomovismo”, per indicare la sindrome paralizzante che impedisce ogni azione, l’incapacità di alzarsi dal letto la mattina, lavorare, prendere in mano la penna per scrivere una lettera, finire ciò che si è cominciato.
Come si curano le persone affette da questo problema?
L’esperienza mostra che il male sta alla radice, ed è l’eccesso di fantasia, la sensibilità morbosa, i pensieri tortuosi che appesantiscono il cuore e la mente e paralizzano l’azione.
Il cuore e la mente vanno tenuti sgombri, spazzati. I libri ascetici consigliano di rivolgere il pensiero a Dio fin dal primo momento della giornata, di offrirgli il nostro lavoro e di chiedergli aiuto. Per esempio, cominciando ogni giorno con la frase che la Chiesa ha posto all’inizio della preghiera delle ore, il salmo 70,2: “Signore, vieni presto in mio aiuto! ”.

La sua mano fu risanata
Il marxismo metteva il lavoro al primo posto, e voleva che la gente lavorasse con gioia, come in un nuovo paradiso in terra. I problemi cominciarono però a causa del metodo usato per raggiungere questo scopo. L’esperienza ci ha insegnato che per rendere piacevole il lavoro non serve dedicarlo allo stato, all’umanità o al partito, anche se è vero che è bene non lavorare solo per soldi.
Se, come dice san Giovarmi Crisostomo, Adamo nel paradiso lavorava per la perfezione, il concetto va ben inteso. L’uomo non si migliora cercando di migliorare il metodo di lavoro, ma con l’amore. Lavora con maggiore gioia e libertà chi ha coscienza di lavorare per qualcuno, che a sua volta lavora per lui.
Nel lavoro spesso c’è competizione e concorrenza, e ognuno cerca di essere meglio dell’altro. Invece il cristiano, che ogni giorno lavora per Dio, fa esperienza che Dio lavora per lui. Allora il lavoro non è un peso e acquista onore presso Dio e presso gli uomini» (TOMÁŠ ŠPIDLÍK, Il Vangelo di ogni giorno. Riflessioni sul Vangelo feriale. III. Tempo “per annum” 1, Lipa, Roma 2001, pp. 31-33).

I lettura PARI

«Davide è stato un uomo amato. Amato da Dìo (cf. 1Sam 18,12), dal popolo e dai suoi ministri (cf. 18,13); amato da Mical, la figlia di Saul (cf. 18,20), e, non da ultimo, da Gionata (cf.18,1;19,1). Ma donde è nato, vogliamo chiederci, l’amore di Gionata per Davide? A. Neher ha offerto nel suo famoso libro L’esilio della parola una risposta suggestiva quando ha notato che l’amore di Gionata è nato dal silenzio. Cosa significa? Per capirlo bisogna rifarsi alla storia; alle vicende che hanno accompagnato Davide nella sua graduale ma inarrestabile ascesa. Il testo biblico fa capire che il re Saul era ammalato, probabilmente era affetto da crisi depressive. Davide era chiamato a corte perché con il suono dell’arpa, di cui era maestro, riusciva a calmare l’animo turbato e talora violento del sovrano. Faceva questo però clandestinamente, di nascosto soprattutto dal popolo, in modo che nessuno potesse sospettare delle condizioni reali del re. Dopo la vittoria su Golia è presentato a Saul, il quale, fingendo di non conoscerlo, gli chiede di chi è figlio. Davide, intelligentemente, sta al gioco e risponde che lesse il Betlemmita, è suo padre. Davide, quindi, non dice tutto, si impone un limite, e questo non detto evita di esporre il re alla vergogna e alla derisione. Proprio per questo silenzio. Gionata amò Davide. Gionata riconosce il gesto di un vero fratello e dal quel preciso istante l’amore lo lega a lui in modo irreversibile.
Ecco allora che si farà intercessore presso il padre per salvarlo (cf 19,1 7), lo incontrerà di nascosto per avvertirlo dei piani omicidi contro di lui, come leggiamo nel brano proposto oggi dalla liturgia. Andrà anche oltre, accogliendo il progetto di Dio che riconosce in Davide il futuro re d’Israele. Anche Davide, e in più occasioni, dimostrerà il suo fraterno affetto. Eco commovente del suo amore per Gionata, come anche per Saul, è la famosa qinà, l’elegia da lui pronunciata, con dolore sincero per la loro morte, che sentiremo in parte nella liturgia eucaristica di sabato (cf. 2Sam.1,19-27). Questo testo ci offre parecchi spunti di riflessione. Anzitutto dobbiamo interrogarci sulla nostra capacità di vivere il silenzio come custodia del fratello. Talora veniamo a conoscenza di realtà penose del nostro prossimo, di fragilità e debolezze. Certo, non dobbiamo nasconderle, altrimenti peccheremmo di omertà, ma talora ci è chiesto un silenzio, che sa custodire e non esporre, proteggere e non consegnare in pasto alle chiacchiere. Il silenzio, all’interno delle nostre relazioni, è indice di maturità umana e spirituale, di vero spirito di fede che riconosce sul volto del nostro prossimo, anche se talora ferito, i lineamenti del volto di Cristo. Da questo sorge un nuovo umanesimo che, come disse Paolo VI alla chiusura del Concilio Vaticano II, altro non è che un autentico cristianesimo.

Signore Gesù, donaci una nuova capacità di amare per poter abbracciare nel silenzio del cuore la vita dei nostri fratelli; una vita talora attraversata dal peccato e dalla fragilità. Sì, è solo nell’amore che impariamo ad ascoltare e tacere, a parlare e comunicare nel pieno rispetto dell’altro, nella gioia dell’incontro fraterno» (SANDRO CAROTTA, in Messa e preghiera quotidiana, gennaio 2016, pp. 209-211).

«Il fine di questa convocazione è duplice: per rimanere con Gesù, e poi per andare a predicare e guarire le genti nel suo nome. Osserviamo bene l’espressione “perché stessero con lui” (Mc 3,14).
Possiamo rendere questa frase anche in questo modo: “per stabilire una comunione di vita con Gesù”. Il verbo è al futuro e questo significa che per giungere a questa comunione di vita bisogna fare un lungo cammino. Stare con il Signore significa anche stare con lui in preghiera. Pensiamo solo al Getzemani quando Gesù chiede a Pietro, Giacomo e Giovanni di vegliare con lui (cf. 14,34). Stare con lui equivale perciò a condividere la sua ora (cf. 10,39). Ma non basta, bisogna anche annunciare il vangelo di Dio e sanare ogni forma di impurità e malattia nell’uomo. In questo modo Gesù rende i discepoli partecipi della sua autorità (exousía). Un ultimo-particolare: Marco elenca i nomi dei Dodici. Gesù non chiama persone anonime ma delle persone concrete, con le loro attese (Giacomo e Giovanni), con le loro meschìnità (Pietro) e persino capaci di tradire (Giuda). Con questa umanità debole. Gesù fonda il primo nucleo della sua comunità, fonda la Chiesa. Se Gesù è salito sul monte prima di scegliere i Dodici, significa che la scelta da lui operata non è solo il frutto di una sua libera iniziativa. Gesù si è confrontato con il Padre, e gli ha obbedito. Quindi, la scelta di Simone, Giacomo, Giovanni… attesta anche la sua obbedienza alla volontà divina. In questa luce noi comprendiamo quanto Gesù, nella Preghiera sacerdotale, ha detto nell’imminenza della sua morte: “Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi” .

Signore Gesù, tu ci chiami a stare con te; vogliamo stare con te per ascoltare la tua Parola, per riconoscerti sul volto dei nostri fratelli, per donarti interamente il nostro cuore, per conoscerti e amarti. Signore Gesù, tu ci invii nel mondo; vogliamo camminare con te per seguirti sulla tua stessa via, per camminare come tu hai camminato, per percorrere la strada della donazione fino alla morte» (SANDRO CAROTTA, in Messa e preghiera quotidiana, gennaio 2016, pp. 220-221).

«Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio costui per me è fratello, sorella e madre›› (Mc 3,34-35). Il legame che ci unisce a Gesù non è fondato su vincoli di carne e di sangue, ma sull’obbedienza alla volontà di Dio. Si tratta, infatti, di condividere con Gesù lo stesso atteggiamento che egli vive verso il Padre. Lo esprime bene la Lettera agli Ebrei, interpretando alcune espressioni del Salmo 39, che la liturgia odierna ci propone come canto responsoriale alla Parola proclamata. In particolare, la lettera pone sulle labbra di Cristo queste parole: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. […] Allora ho detto: “Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto sul rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà›› (Eb 10, 5.7).
È illuminante osservare come questo testo citi il salmo modificando una sua immagine. Laddove il salmista afferma che Dio gli ha aperto gli orecchi (cf. Sal 39,7), la lettera parla piuttosto di un corpo che è stato preparato. Questo passaggio dall’orecchio al corpo esprime il ricco dinamismo dell’incarnazione. L’orecchio aperto alla parola di Dio diventa un corpo nel quale quella parola può incarnarsi, prendendo stabile dimora in mezzo a noi. La volontà di Dio prende corpo. Il suo desiderio è ora un corpo che si muove come il nostro, percepisce ciò che il nostro corpo percepisce, tocca e si lascia toccare, vede e si lascia guardare, incontra e si lascia incontrare. La volontà di Dio non è più scritta su tavole di pietra o su un rotolo da leggere. È scritta nel corpo di una persona della quale possiamo ascoltare le parole e comprendere i silenzi, osservare i gesti e riconoscerne le intenzioni, discernere i passi per seguire la via che tracciano nella storia. «Tutto il divino si trova finalmente identificato da quel corpo; sottratto una volta per sempre ai goffi tentativi di parlarne, di definirlo con delle idee, di racchiuderlo in qualche immaginazione» (M. Antonelli).
Abbiamo da poco celebrato il battesimo di Gesù, episodio nel quale lo Spirito di Dio discende come una colomba su Gesù (cf. Mt 3,16). Nel brano parallelo, Luca precisa «in forma corporea, come una colomba›› (Lc 3,22). La corporeità dello Spirito sembra rimarcare che l’esperienza spirituale è sempre esperienza corporea. Quelli che i nostri spiritualismi falsi ed evanescenti ci fanno immaginare come insanabilmente contrapposti – spirito e corpo – sono invece indissolubilmente uniti, tanto nell’esperienza di Gesù quanto in quella dei suoi discepoli. Lo Spirito desidera rivelarsi in un corpo, il corpo anela a lasciarsi vivificare dallo Spirito. Ecco allora il vero sacrificio gradito a Dio: quello di un corpo che desidera diventare dimora dello Spirito e sua manifestazione, non mortificando, ma vivendo appieno i linguaggi corporei. Quella dello Spirito, allora, non è più esperienza eterea. Vive della concretezza dei nostri sensi e dei nostri gesti. Per questo motivo Paolo potrà dire che il vero culto spirituale consiste nell’offerta dei nostri corpi . Ed è appunto grazie a questa corporeità, vissuta davanti a Dio e nel suo Spirito, che diventiamo capaci di discernere la sua volontà, «ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2). Questo corpo che Dio ci prepara non è soltanto un corpo individuale. È un corpo comunitario, ecclesiale. È il corpo di tutti color che, afferma Gesù, formano la sua famiglia. Gli sono «fratello, sorella e madre›› (Mc 3,35) perché si lasciano radunare in un solo corpo dall’ascolto obbediente della parola di Dio. La madre di Gesù e i suoi fratelli lo cercano e lo mandano a chiamare «stando fuori», come racconta l’evangelista (3,31). Ma per incontrare Gesù non si può rimanere fuori, occorre entrare. Entrare in lui, nel suo stesso corpo, fino a formare un solo corpo con lui. Un corpo offerto a Dio perché abitato dallo Spirito.

Padre, apri il nostro orecchio affinché la tua parola prenda corpo in noi. Donaci il tuo Spirito di comunione, perché ci raduni in un’unica famiglia con tutti coloro che cercano il tuo volere. Rivelaci quale sia il sacrificio a te gradito, perché tutta la nostra vita parli di te a chi ti cerca» (LUCA FALLICA, Dentro un corpo, in Messa e preghiera quotidiana, 2017, gennaio, pp. 250-252).

I Lettura Pari

«Davide è stato un uomo amato. Amato da Dìo (cf. 1Sam 18,12), dal popolo e dai suoi ministri (cf. 18,13); amato da Mical, la figlia di Saul (cf. 18,20), e, non da ultimo, da Gionata (cf.18,1;19,1). Ma donde è nato, vogliamo chiederci, l’amore di Gionata per Davide? A. Neher ha offerto nel suo famoso libro L’esilio della parola una risposta suggestiva quando ha notato che l’amore di Gionata è nato dal silenzio. Cosa significa? Per capirlo bisogna rifarsi alla storia; alle vicende che hanno accompagnato Davide nella sua graduale ma inarrestabile ascesa. Il testo biblico fa capire che il re Saul era ammalato, probabilmente era affetto da crisi depressive. Davide era chiamato a corte perché con il suono dell’arpa, di cui era maestro, riusciva a calmare l’animo turbato e talora violento del sovrano. Faceva questo però clandestinamente, di nascosto soprattutto dal popolo, in modo che nessuno potesse sospettare delle condizioni reali del re. Dopo la vittoria su Golia è presentato a Saul, il quale, fingendo di non conoscerlo, gli chiede di chi è figlio. Davide, intelligentemente, sta al gioco e risponde che lesse il Betlemmita, è suo padre. Davide, quindi, non dice tutto, si impone un limite, e questo non detto evita di esporre il re alla vergogna e alla derisione. Proprio per questo silenzio Gionata amò Davide. Gionata riconosce il gesto di un vero fratello e dal quel preciso istante l’amore lo lega a lui in modo irreversibile.
Ecco allora che si farà intercessore presso il padre per salvarlo (cf 19,1 7), lo incontrerà di nascosto per avvertirlo dei piani omicidi contro di lui, come leggiamo nel brano proposto oggi dalla liturgia. Andrà anche oltre, accogliendo il progetto di Dio che riconosce in Davide il futuro re d’Israele. Anche Davide, e in più occasioni, dimostrerà il suo fraterno affetto. Eco commovente del suo amore per Gionata, come anche per Saul, è la famosa qinà, l’elegia da lui pronunciata, con dolore sincero per la loro morte, che sentiremo in parte nella liturgia eucaristica di sabato (cf. 2Sam.1,19-27). Questo testo ci offre parecchi spunti di riflessione. Anzitutto dobbiamo interrogarci sulla nostra capacità di vivere il silenzio come custodia del fratello. Talora veniamo a conoscenza di realtà penose del nostro prossimo, di fragilità e debolezze. Certo, non dobbiamo nasconderle, altrimenti peccheremmo di omertà, ma talora ci è chiesto un silenzio, che sa custodire e non esporre, proteggere e non consegnare in pasto alle chiacchiere. Il silenzio, all’interno delle nostre relazioni, è indice di maturità umana e spirituale, di vero spirito di fede che riconosce sul volto del nostro prossimo, anche se talora ferito, i lineamenti del volto di Cristo. Da questo sorge un nuovo umanesimo che, come disse Paolo VI alla chiusura del Concilio Vaticano II, altro non è che un autentico cristianesimo.

Signore Gesù, donaci una nuova capacità di amare per poter abbracciare nel silenzio del cuore la vita dei nostri fratelli; una vita talora attraversata dal peccato e dalla fragilità. Sì, è solo nell’amore che impariamo ad ascoltare e tacere, a parlare e comunicare nel pieno rispetto dell’altro, nella gioia dell’incontro fraterno» (SANDRO CAROTTA, in Messa e preghiera quotidiana, gennaio 2016, pp. 209-211).

«Due storie cariche di violenza, inquietanti si riflettono nei testi della liturgia della Parola odierna. Pongono di fronte al nostro sguardo, con cruda verità, il male che abita nel cuore dell’uomo e che ferisce e deturpa la storia. Maledicendo il re Davide, Simei gli rinfaccia tutto il sangue versato per la conquista del potere da parte di Saul, sangue che ora ricade sulla testa di Davide osteggiato dal figlio Assalonne che tenta di usurparne il trono: «Vattene, vattene, sanguinario, malvagio!» (2Sam 16,7). E nel racconto di Marco scopriamo come il male possa impossessarsi della vita di un uomo, sfigurarla e devastarla a tal punto da renderla selvaggia: «Nessuno riusciva più a domarlo […] gridava e si percuoteva con pietre» (Mc 5,4-5). La parola di Dio ci invita a guardare con lucidità ciò che il male può procurare alla vita e alla dignità dell’uomo, senza nascondersi in un illusorio ottimismo. Ma la parola di Dio ha anche la forza di sollevare il nostro sguardo verso l’alto e rivelarci la potenza che può strapparci dalle mani violente di colui che semina odio e morte.
La reazione di Davide agli insulti di Simei già ci rivela un tratto della forza che può vincere la violenza. Davide, all’invito di Abisai di mettere a tacere chi sta maledicendo il re, reagisce con queste parole: «Se maledice, è perché il Signore gli ha detto: “Maledici Davide!”›› (2Sam 16,10). Questa parola carica di odio sta ferendo il cuore di Davide, ma egli sa che essa può contenere una medicina salutare, quella che vince il veleno dell’orgoglio. Davide accetta questo insulto che lo sta purificando dal suo peccato e si affida a Dio senza reagire con vendetta: «Forse il Signore guarderà la mia afflizione e mi renderà il bene in cambio della maledizione di oggi» (16,12).
Dio, che fa passare dalla maledizione alla benedizione, ha il potere di vincere ogni forma di male che abbrutisce la vita dell’uomo.
E in Gesù si rivela questa potenza, in lui che ha preso su di sé la maledizione del peccato per ridonare all’uomo la benedizione di Dio (cf. Gal 3,13-14). Il racconto dell’indemoniato di Gerasa è come un’icona di questo passaggio dalla maledizione alla benedizione. Marco ci descrive con molta precisione la vita di un uomo devastato da una presenza demoniaca, che trattiene legata l’esistenza di quest’uomo e toglie ad essa ogni dignità. La violenza del male lo pone fuori della compagnia degli uomini, come bestia feroce e indomabile. Abita nei luoghi solitari della morte e non comunica più con alcuno. La sua parola è solo grido e ogni suo gesto è come un’autodistruzione: «Continuamente, notte e giorno, fra le tombe e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre» (Mc 5,5). È una descrizione simbolica di come il male, e il peccato che è alla radice di esso, possano devastare la vita di un uomo. Ma il vero volto del peccato viene smascherato da queste parole urlate con rabbia dall’indemoniato: «Che vuoi da me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!» (5,7). Quando la potenza di Dio si avvicina al male, allora si scopre che ciò che abita il cuore non ha nulla a che fare con Cristo. E c’è solo una via di liberazione: fare uscire questo male dal cuore e lasciare che in esso abitino il perdono e la pace di Cristo. Ma ciò non è possibile all’uomo. Solo la parola di Gesù, la forza con cui egli chiama per nome il nostro peccato (cf. 5,9-10) e la potenza che si rivela nell’affogare il male nelle acque della morte (cf. 5,11-13), possono ridare all’uomo la sua vera dignità: «Videro l’indemoniato seduto, vestito e sano di mente» (5,15). Ma per compiere questo cammino ci vuole il coraggio di lasciarsi cambiare dalla parola di Gesù altrimenti si cade nella trappola di geraseni: «Ed essi si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio» (5,17). La paura di cambiare non ci libera e ci allontana da Cristo» (PIOVANO ADALBERTO, Messa e preghiera quotidiana, febbraio 2016, pp. 16-18).

«Quello dell’indemoniato di Gerasa è uno dei racconti più circostanziati che l’evangelista Marco ci offre nel suo vangelo. Il contesto è quello di una svolta nel cammino e nella missione del Signore Gesù. Per la prima volta Gesù, unitamente ai suoi discepoli, si lascia alle spalle la Giudea e s’inoltra dall’altra parte del Giordano. In quei luoghi, così vicini a Gerusalemme eppure così lontani, si sente maggiormente il peso e il giogo dell’occupazione straniera, a motivo del pericolo più grande di essere quasi contaminati da ciò che si oppone alla purezza della fede. Il fatto che vi si allevino, in grande quantità dei porci, è segno che qualcuno deve pure mangiarli! La terra è occupata da ciò che rischia di snaturarla. Così il cuore e la vita di quest’uomo, che esce incontro a Gesù dai sepolcri, sono segnati da una sofferenza e da una rabbia che rischiano di farlo vivere in uno stato più simile a quello degli animali – tra l’altro i più immondi – condannandolo a una vita disumana,
L’indemoniato di Gerasa è interiormente combattuto tra il desiderio di uscire dallo stato in cui la sua vita è stata prostrata e il bisogno, fatto di abitudine e di strana quanto dolorosa complicità con il male che lo abita. Sembra che una parte di sé si faccia interprete del desiderio – meglio sarebbe dire del non-desiderio – del mondo in cui abita e che si potrebbe riassumere così “È troppo presto per la salvezza!”. Sì, sarebbe bene riceverla, ma non troppo presto perché questo significa un incremento di vita che comporta una serie di cambiamenti e di imprescindibili rinunce.
La parola pronunciata dalla legione di demoni non è altro che l’espressione anticipata di ciò che gli abitanti della regione chiederanno al Signore Gesù: ritornarsene da dove era venuto, perché è troppo presto per accogliere fino in fondo, e in pienezza, il dono di quella libertà fatta di molteplici e continue liberazioni dalle innumerevoli catene che ci tengono prigionieri e schiavi. Forse, lo svantaggio di quell’uomo ormai ridotto allo stremo della vita era proprio il fatto di non avere più mente da perdere, tanto da sentire in Gesù la sua ultima possibilità per poter finalmente passare o di qua o di là: o nella vita o nella morte. La legione non è d’accordo, la gente del luogo neanche, non resta a Gesù che ritornarsene dall’altra parte del lago, dopo aver posto comunque un segno forte e indimenticabile: la liberazione è possibile! A noi scegliere di aprire le porte e di accettare di entrare nella sua dinamica di liberazione e di vita.
I geraseni non hanno dubbi sul da farsi: “Si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio” (Mc 5,17). I demoni, a loro volta, non avevano avuto alcun dubbio: “Mandaci da quel porci, perché entriamo in essi” (5,12). L’autore della Lettera agli Ebrei ci ricorda che Dio “aveva predisposto qualcosa di meglio” (Eb 11,40). Ma il meglio che il Signore ci vuole offrire esige, sempre e comunque, la disponibilità a riprendere la strada della vita con una responsabilità e creatività veramente nuove che non ci permettono di “restare” (Mc 5,18) ma ci chiedono, piuttosto, di andare sempre oltre.

Signore Gesù, non è raro che, dalla vita ci aspettiamo solo il peggio. Spesso non riusciamo a immaginare altri scenari se non quelli a cui siamo abituati, e in cui rischiamo di affogare le nostre possibilità di vita per paura di perdere ciò che comunque abbiamo e sappiamo di noi stessi. Ti preghiamo, donaci occhi per il meglio che portiamo dentro di noi e che possiamo sempre attenderci dalla vita che ci circonda, così che essa non si trasformi in cimitero vivente» (FRATEL MICHAELDAVIDE (a cura di), Meglio, in Messa e preghiera quotidiana, febbraio 2013, pp. 54-56).

2 Sam 18,9-10.14b.21a.24-25a.30-32; 19,1-3; Sal 86; Mc 5,21-43

«Gesù ci ha rivelato la paternità di Dio e ci ha insegnato a pregare Dio come nostro Padre. Nella prima lettura ci viene presentato un bell’esempio di amore paterno, che però è soltanto una pallida immagine dell’amore paterno di Dio.
Davide, in fuga dopo la rivolta di Assalonne, si interessa ansiosamente della sorte di suo figlio. Quando vede arrivare i messaggeri, chiede: “Il giovane Assalonne sta bene?”. Ma quando intuisce la verità, cioè che Assalonne è morto, scosso da un tremito, piange: “Figlio mio Assalonne! Figlio mio, figlio mio Assalonne! Fossi morto io invece di te, Assalonne, figlio mio, figlio mio!”. Davide non pensa più alla colpa, ma soltanto alla morte del figlio. Lo stesso dice Paolo a proposito di Dio: “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi (Rm 5,8). Dio, per così dire, dimentica il proprio interesse, per far rivivere i propri figli.
Questo costituisce un insegnamento per noi. Ogni giorno i giornali ci riferiscono di uccisioni, di delitti efferati, e la nostra reazione spontanea è di collera e di disprezzo verso i criminali. Ma questa non è una reazione cristiana. Se fossimo più uniti a Dio, la nostra sofferenza sarebbe per il male che gli uomini fanno a se stessi più che alle loro vittime, e così sarebbe più simile all’amore paterno di Dio e sarebbe anche più efficace perché il male venga eliminato realmente. Infatti, quando si odiano i peccatori, il male non viene eliminato, ma accresciuto. La carità divina, invece, abbraccia i peccatori perché possano cambiare vita e ritrovare la strada del bene.
Possiamo fare anche un’altra riflessione sulle letture di oggi. La prima lettura ci mostra che l’amore degli uomini è impotente di fronte alla morte: Davide non può realizzare il suo desiderio di morire al posto del figlio, e tutto il popolo quasi si vergogna della vittoria ottenuta. Invece, nel Vangelo la scena di morte è pervasa di serenità. Gesù si avvicina alla fanciulla morta con un senso non di impotenza, ma di sicurezza, come davanti a una bambina che dorme, e dice alla gente: “Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme”. Poi presa la mano della bambina, le dice: “Fanciulla io ti dico: àlzati!”.
Tutto il Vangelo ci mostra che Gesù ha il potere sulla morte, perché è morto per noi. Con la sua potenza divina egli ha vinto la morte subendola al posto nostro. Il suo amore non è stato un amore facile, ma un amore pieno di compassione, che gli ha fatto condividere la nostra condizione umana fino al punto di dare la vita per noi.
Apriamoci a questo incredibile amore divino e mettiamo tutta la nostra fiducia in Gesù, sorgente di vita» (ALBERT VANHOYE, Il pane quotidiano della Parola. Volume secondo – Tempo ordinario/1. Anno B, Edizioni AdP, Roma 2015, pp. 75-76).

SECONDO COMMENTO
C’è uno sforzo da parte di Gesù per far approfondire la fede alla donna guarita: quello che è avvenuto in lei non è qualcosa di magico, ma un incontro personale con Cristo. Perciò la donna viene invitata ad un incontro personale con il suo Salvatore.
Questa donna è un esempio di come Gesù si rivolge a chi mostra in Lui un fiducia infantile: Egli elargisce la guarigione e orienta verso quella fede completa alla quale è promessa una più vera salvezza. La sua parola alla donna già risanata corregge, senza darlo a vedere, la concezione inadeguata che ella aveva: solo la sua fede le ha procurato la guarigione; ma non come una fede nei miracoli che agisce magicamente, bensì come la fiducia di un credente che Dio ha voluto premiare. Gesù assicura alla donna, basandosi sulla fede di lei, quel genere di salvezza che fa presagire la salute di tutta intera la persona umana. Il culmine della vicenda si ha con la parola finale rivolta alla donna: Figlia, la tua fede ti ha salvato. Vi è qui di nuovo, come nel prodigio della bonaccia sul lago, un pressante ammonimento ad aver fede. Non è la fiducia in un gesto magico che può salvare, ma l’incontro personale con Gesù mediante la fede. La donna che aveva cercato di carpire la guarigione di nascosto ottiene la salvezza mediante la sua fede esplicita.
Il miracolo non è magia, ma esito di preghiera e di affidamento. Tutti quelli che toccavano fisicamente Gesù ottenevano miracoli e guarigioni? No, solo quella donna, perché toccava con fede. Allora tutti quelli che hanno fede, ottengono guarigioni e risurrezioni? Non appare; tutti quelli che hanno fede, entrano invece sicuramente in comunione con Gesù. Non è ancora avvenuto nulla di importante, finché non si giunga ad un incontro personale con Gesù, incontro che si compie solo per mezzo della parola, anzi del dialogo. È da Gesù che parte lo sguardo che cerca e che crea la comunione con l’uomo. La fede è più che fiducia in un taumaturgo, anche se comincia in questa forma. Proprio per questo la donna doveva prendere coscienza di quanto era accaduto nel più profondo.
Commenta Agostino: È con la fede che si tocca Cristo. Non basta, per toccarlo, che Egli sia presente; non sono sufficienti i riti e i sacramenti; e ci vuole assai di più di una coscienza familiare della Scrittura o dell’essere in uno stato religioso o in un ordine sacro: quando manchi la fede, nella quale ci si decide in Gesù Cristo in forma radicale per la forma della propria esistenza, Cristo rimane ancora nella estraneità. Non c’è da farsi illusioni: la fede insostituibile nasce dall’intimo dell’anima, e non c’è condizione ecclesiale che automaticamente preservi dall’incredulità; e, d’altro canto, la stessa fede può accendersi in colui che ci sembra più lontano dal sacro, più fuori mano dal gruppo dei vicini, di quelli che fanno ressa attorno.
Giairo e la donna malata hanno in comune una fede iniziale e Gesù vuole aiutarli a compiere un cammino ulteriore, difficile, ma verso la luce. Giairo è sottoposto ad una grande prova di fede: la sua fede – alla notizia della morte della figlia – subisce uno scossone notevole. Gli suggeriscono di lasciar perdere, non è più il caso: Gesù sarebbe capace solo di guarire i malati, non di risuscitare i morti. Sono questi i momenti in cui si gioca la continuità di un rapporto con Lui: quando la realtà ha pronunciato la sentenza più brutale e inappellabile. Una fede che tratti con Gesù solo … gli affari possibili non è fede. La vera fede è quella capace di combinare con Lui gli affari impossibili!

Mentre Gesù va alla casa di Giairo, per guarire la figlia in fin di vita, una donna, malata da dodici anni di una terribile emorragia, gli tocca il mantello, nella certezza che, con quel gesto silenzioso, sarebbe stata guarita. Gesù si accorge che la donna l’ha toccato con fede, la guarda in faccia e le dice: «Figlia, la tua fede ti ha salvato». È una grande lezione per tutti noi: non sono le candele, le offerte e neppure i rosari che diciamo, che ci salvano, ma solo la fede; possiamo accendere mille candele, possiamo dare al parroco centomila euro, la grazia che chiediamo non la riceviamo, se non c’è in noi una fede profonda, viva e operosa. La fede fa i miracoli! Quella fede che aveva Giairo, che riceve la grazia di vedere risorgere sua figlia, con la meraviglia della gente, che già piangeva per la morte della ragazza.
(a cura di Rudolf Schnackenburg, Rinaldo Fabris, Inos Biffi).

Eb 12,1-4; Sal 22; Mc 5,21-43

«Le letture di oggi ci fanno vedere quanto sia importante il contatto con Gesù.
La Lettera agli Ebrei descrive la nostra situazione con un’immagine sportiva: siamo allo stadio; c’è la gara, e ci sono gli spettatori, cioè i santi, quelli che hanno raggiunto la meta e ci guardano dal Paradiso; e noi siamo esortati a correre “tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento”.
Questo sguardo su Gesù è la realtà fondamentale. Quando pensiamo all’esempio dei santi, dei martiri e, soprattutto, di Gesù stesso nella sua passione, morte e risurrezione, tutte le difficoltà diventano per noi ben poca cosa. “Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori”, dice l’autore della Lettera agli Ebrei.
Tenere lo sguardo fisso su Gesù è un primo modo per essere in contatto con lui. C’è poi un secondo modo: parlargli, chiedergli di intervenire nelle nostre difficoltà, di manifestare la sua potenza nelle nostre infermità, come fa Giairo nel Vangelo di oggi: “Venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: La mia figliola sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva”.
Un terzo modo di essere in contatto con Gesù è quello della donna ammalata che aveva perdite di sangue da dodici anni. Lei si vergogna di parlare della sua malattia, ma fa di tutto per essere guarita da Gesù: gli viene dietro, cercando di toccarlo di nascosto, e pensa: “Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata”. Poi tocca il mantello di Gesù, e subito le si ferma il flusso di sangue e lei sente nel suo corpo che è guarita dal male.
Gesù poi mette in risalto questo gesto, per far capire che non è il semplice contatto con lui che salva, ma la fede Per questo si volta alla folla e dice: “Chi ha toccato le mie vesti?”. E quando la donna confessa di essere stata lei, Gesù le dice: “Figlia, la tua fede ti ha salvata”.
Quando teniamo fisso lo sguardo su Gesù, quando gli parliamo, quando lo tocchiamo, lo dobbiamo fare con fede. Allora egli ci trasformerà, si comunicherà a noi, e ci renderà come lui, capaci di aiutare i nostri fratelli» (ALBERT VANHOYE, Il pane quotidiano della Parola. Volume secondo – Tempo ordinario/1. Anno B, Edizioni AdP, Roma 2015, pp.74-75).

«Stupirsi e credere
Spesso nella nostra vita facciamo un’esperienza molto simile a quella narrata nel racconto di Marco proposto dalla liturgia di oggi (cf. Mc 6,1-6). Ci stupiamo di fronte alla persona di Gesù, con meraviglia ascoltiamo la sua parola, autorevole, ma poi non riusciamo sempre a fare il salto della fede. Sappiamo che Gesù è il Figlio di Dio e ci sembra quasi scontato tutto ciò che dice o fa.
Ma non riusciamo a metterlo in relazione con l’ordinarietà della nostra vita e scoprire in essa quel volto che tanto ci affascina.
E così dallo stupore passiamo a una sorta di indifferenza, di delusione che ci impedisce di andare oltre e accogliere la persona di Gesù.
Ciò che è avvenuto nella sinagoga di Nazaret mette allo scoperto quell’incredulità nascosta nel nostro cuore, quella durezza che ci ostacola nell’incontro autentico con Gesù e nella scoperta del suo volto. Proprio coloro che pensano di conoscere bene Gesù, i suoi concittadini, cascano nella trappola di una risposta facile di fronte alla persona di Gesù. Gesù è vissuto in mezzo a loro per circa trent’anni: l’hanno visto crescere, l’hanno osservato ogni giorno nell’ordinario di una vita senza particolari segni premonitori, conoscono tutti i parenti. Eppure restano stupiti udendolo insegnare nella loro sinagoga. La meraviglia provoca in loro delle vere domande sulla persona di Gesù, sulla sua parola, su ciò che compie: “Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani?” (6,2). Ma sembra che queste domande sfumino gradualmente in una sorta di scetticismo. Non c’è il coraggio di proseguire in un’autentica ricerca. Tutto si blocca: non c’è il salto della fede. Ai concittadini di Gesù non sembra possibile che queste cose straordinarie possano riferirsi a quell’uomo ordinario che loro ben conoscono, a quel Gesù figlio di Maria, a quel falegname di Nazaret: “Era per loro motivo di scandalo” (6,3).
Il risultato è una radicale incredulità, un’incapacità ad affidarsi a questa parola potente che libera l’uomo. E senza questa fede liberamente accolta, Dio non può salvare l’uomo: “E lì non poteva compiere nessun prodigio” (6,5). Alla fine è Gesù a stupirsi di questa durezza di cuore.
Non basta meravigliarsi di fronte a Gesù: bisogna credere in lui per conoscerlo, per scoprire il suo mistero. C’è un salto di qualità da compiere, c’è una via di conversione da percorrere. E alla luce di ciò che è avvenuto nella sinagoga di Nazaret, scopriamo quali sono i passi da fare, perché anche noi siamo un po’ simili ai concittadini di Gesù: lo conosciamo bene, sappiamo tante cose su di lui. Davide aveva preteso di contare il popolo a lui affidato, lasciandosi trascinare in una sorta di onnipotenza e dimenticando che solo Dio ha nelle sue mani le sorti dell’umanità (cf. 2Sam 24,9-17). Anche noi ci illudiamo di contare i passi di Dio, cioè il modo in cui Dio si rivela a noi. Ma quando il Signore ci incontra in un modo inaspettato, quando ci rivolge una parola che non attendevamo, ecco allora l’incredulità. E questa aumenta quando pretendiamo di poter sperimentare nella nostra vita sempre un volto spettacolare e potente di Dio. Facciamo fatica a scorgere la sua presenza, la sua potenza che salva nel quotidiano della nostra esistenza, in quella “Nazaret” dove avvengono le cose più ordinarie e dove incontriamo le persone più ordinarie. Dimentichiamo che in questa “Nazaret” il figlio di Dio è vissuto per trent’anni e lì non solo ha custodito nel silenzio la sua divinità, ma ha accettato di imparare dalla nostra povera umanità. È questo il vero stupore che apre alia fede: non tanto lo stupore di fronte alla potenza di Dio, ma lo stupore di fronte a una potenza che si manifesta nella fragilità della nostra carne.


Di fronte alla tua parola, o Signore Gesù, di fronte al tuo volto, noi proviamo lo stupore dell’inatteso. Nella tua umanità è custodito il tuo mistero divino. Facci passare dalla meraviglia alla fede, perché sappiamo scorgerti presente nelle cose più ordinarie della nostra vita, e così accogliere l’umiltà del tuo amore e credere che solo esso ci salva» (ADALBERTO PIOVANO, Messa e preghiera quotidiana, febbraio 2016, pp. 37-40).

«Due contesti ben differenti emergono dai testi scritturistici proposti dalla liturgia della Parola odierna. Da una parte c’è lo spazio solenne del tempio fatto costruire da Salomone, in cui, attraverso una coreografia liturgica che ha la forza di trasmettere tutto il mistero che abita la santità di Dio, viene introdotta l’arca dell’alleanza (cf. 1Re 8,1-7.9-13). Nel breve sommario di Mc 6,53-56, al nostro sguardo invece si presenta una umanità sofferente, ferita e affaticata, quell’umanità che purtroppo ben conosciamo e che non sembra trasmettere quel senso di trascendenza che spesso l’uomo cerca per fuggire dalla pesantezza della sua vita. Ma in tutte e due le scene c’è una presenza che dà unità a questi due luoghi: l’arca dell’alleanza e Gesù.
L’arca dell’alleanza è la memoria perenne in cui Israele può riconoscere quella Parola che salva e orienta quotidianamente il cammino, quella Parola donata da Dio per trasformare la vita di quel piccolo popolo da lui scelto nella gratuità del suo amore. Infatti, “nell’arca non c’era nulla se non le due tavole di pietra, che vi aveva deposto Mosè sull’Oreb, dove il Signore aveva concluso l’alleanza con gli Israeliti quando uscirono dalla terra d’Egitto” (1Re-8,9). Ma in Gesù quella Parola che rivela la volontà di Dio non rimane più custodita in un’arca. Essa entra nella storia, prende dimora nella carne dell’uomo e viene custodita nel cuore di coloro che accolgono l’evangelo. I due luoghi in cui questa Parola ha scelto di dimorare nel lungo cammino della storia, luoghi che rivelano l’inaccessibilità del mistero di Dio e la sua prossimità all’uomo, luoghi che sembrano a volte così distanti, in Gesù trovano il compimento e l’unità. E le parole finali di Salomone sembrano predire questa unione tra cielo e terra, tra Dio l’umanità: “Il Signore ha deciso di abitare nella nube oscura. Ho voluto costruirti una casa eccelsa, un luogo per la tua dimora in eterno” (8,12-13).
Allora quell’umanità smarrita che cerca Gesù e che, riconoscendolo, accorre e comincia “a portargli sulle barelle i malati, dovunque udivano che egli si trovasse”, (Mc 6,55), non è così estranea alla santità e alla trascendenza di Dio; anzi sa riconoscere dove abita questo mistero e comprende che questa santità, pur rimanendo in sé un mistero inaccessibile, si rivela anzitutto nella misericordia e nella compassione per l’uomo. Questi uomini e queste donne sembrano non avere più speranze umane: depongono i malati e, con loro, ogni sofferenza ai piedi di Gesù. E Gesù rimane in mezzo a questa umanità, non fugge, non si allontana in quel tempio fatto da mani d’uomo che sembra preservarne la santità e custodirne il mistero. Gesù sa che coloro che lo cercano vivono situazioni di povertà, di indigenza, di smarrimento, di sofferenza. Tutti sentono che Gesù può dire loro qualcosa, può fare qualcosa per loro. E a questi uomini e queste donne Gesù rivela proprio ciò che era custodito nell’arca dell’alleanza: la Parola che comunica l’amore di Dio e che è stata consegnata all’uomo perché in essa trovasse salvezza.
Queste folle che si accalcano attorno a Gesù, ci dice Marco, “lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello; e quanti lo toccavano venivano salvati” (6,56). Chi osava avvicinarsi all’arca dell’alleanza e toccarla, moriva. Chi supplica con umiltà di toccare almeno un lembo della veste di Gesù (cf. il gesto dell’emorroissa in Mc 5,28), viene salvato. Nella carne del Figlio di Dio quella santità di Dio, pur nella sua inaccessibilità, si lascia toccare dall’uomo, perché è una santità che comunica misericordia e vita.

Stendi il manto della tua misericordia su di noi, o Signore, perché custoditi dal tuo amore non ci perdiamo, ma possiamo trovare fiducia, consolazione e pace nelle fatiche e nelle prove della vita.
E quando sentiamo venire meno le nostre forze, ci basta toccare un lembo della tua compassione e così riprendere il cammino nella speranza» (ADALBERTO PIOVANO, Messa e preghiera quotidiana, febbraio 2016, pp. 87-89).

«Ascolta e perdona!
“Beato chi abita nella tua casa: senza fine canta le tue lodi […]. Si, è meglio un giorno nei tuoi atri che mille nella mia casa” (Sal 83.5.11). Così il Salmo responsoriale ci fa pregare oggi. Attraverso questa invocazione esprimiamo il desiderio di dimorare non tanto in un luogo, quanto nella verità di una relazione: quella con Dio, che ci accoglie nella sua casa con la medesima cura e tenerezza con cui una rondine custodisce nel nido i suoi piccoli.
Abitare nella casa del Signore, tuttavia, esige lo sforzo di uscire dalla “propria casa”, vale a dire dai propri giudizi, dalla propria mentalità, dalle proprie tradizioni che così spesso – ricorda Gesù in Marco – finiscono per annullare la parola di Dio.
I due testi biblici che oggi ci vengono proposti disegnano, in fondo, due modi diversi di stare nella casa del Signore. La prima lettura ci riporta alcuni passaggi della preghiera, molto più ampia, che Salomone innalza a Dio dopo aver introdotto l’arca dell’alleanza nel tempio di Gerusalemme: Salomone sottolinea anzitutto il dono di Dio, la sua condiscendenza. Dio, che è incommensurabile e infinito, al punto che i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerlo, pure sceglie, nella libera iniziativa del suo amore, di abitare sulla terra. Peraltro, ha fatto tutto questo in modo gratuito e incondizionato, solo a motivo della fedeltà alla sua alleanza. Salomone non può che riconoscerlo, nello stupore della lode: “Tu mantieni l’alleanza e la fedeltà verso i tuoi servi che camminano davanti a te con tutto il loro cuore” (1Re 8,23).
Con questa fiducia nel Dio dell’alleanza, Salomone può allora innalzare la sua richiesta. La sua preghiera è molto lunga e articolata, tanto che la liturgia ce ne fa assaporare soltanto qualche breve passaggio, ma in fondo essa si raccoglie in un solo grido, bello proprio per la sua incisiva essenzialità: “Ascolta e perdona” (8,30). Qui non abbiamo soltanto il contenuto della preghiera ancor di più c’è la rivelazione: egli è Colui che ascolta e perdona.
Questo è il culto autentico, che ci consente di abitare: nella casa del Signore, di rimanere nella relazione con lui. Ad esso spesso si contrappone un “culto vano”, fondato sui “precetti degli uomini” più che su una vera conoscenza di Dio; È ciò che Gesù denuncia,-accusando farisei e scribi con le parole di Isaia: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me” (Mc 7,6; cf. Is 29;13). Quando il cuore è lontano da Dio?
Gesù ci avverte su alcune possibili tentazioni che conducono in questa lontananza. La prima: fare attenzione soltanto alle forme esteriori senza vigilare sulla verità del cuore. Farisei e scribi accusano i discepoli di Gesù di non attenersi alle prescrizioni della tradizione sulla purificazione delle mani e di altri oggetti. Gesù afferma che è anzitutto della purificazione del cuore che occorre preoccuparsi. Il cuore puro è un cuore semplice, non doppio, non viziato da ambiguità e ipocrisia. Doppio è il cuore di chi, come Gesù stesso esemplifica, è così abile da utilizzare persino la parola di Dio a proprio vantaggio. È talmente ipocrita da ostentare un’osservanza formale della Legge che però trasgredisce il cuore del suo insegnamento. Si può persino utilizzare un precetto per trasgredire un comandamento di Dio come quello che ci chiede di onorare il padre e la madre. Non tanto le mani, ma è il cuore a dover essere purificato da queste doppiezze e ipocrisie. Come canta un altro salmo, può abitare nella tenda del Signore e dimorare nella sua santa montagna soltanto chi “pratica la giustizia e dice la verità che ha nel cuore” (Sal 14,2).
“Di cose simili ne fate molte” (Mc 7,13), conclude Gesù. Questa parola è rivolta anche a noi. A maggior ragione, allora, dobbiamo far nostra l’invocazione di Salomone: “Signore, ascolta e perdona!”.

Signore, il nostro cuore è spesso lontano da te. Tu invece ci rimani vicino, nella fedeltà alla tua alleanza, nella misericordia del tuo perdono, nella condiscendenza con cui vieni ad abitare non solo in un luogo, ma nella nostra stessa vita, nella quale scegli di porre la tua dimora. Ascolta la nostra invocazione, perdona il nostro peccato, purifica il nostro cuore, fa’ di noi la tua eredità!» (LUCA FALLICA, Messa e preghiera quotidiana, febbraio 2016, pp. 96-99).

«Che cosa contamina l’uomo (Mc 7,14-23)

Tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo
Nella vita quotidiana veniamo contaminati da molti fattori esterni come inquinamento, radiazioni, onde elettromagnetiche. Ci laviamo e ci cambiamo gli abiti illudendoci di essere puliti, che lo sporco non può aderire al nostro corpo. In senso metaforico veniamo contaminati dai discorsi cattivi, dalle calunnie, ma anche in questo caso sappiamo difenderci, sopportando fino a che le malevolenze cessano e la verità viene a galla.
Peggiore è la situazione nelle tentazioni: un’immagine suscita il desiderio di comportarci contro la legge di Dio. Troviamo un portafoglio e il pensiero di prendere il denaro non nostro ci entra nel cuore. Per questo, per non cadere in tentazione, cerchiamo di evitare le occasioni di peccato e gli ambienti più esposti al male.
Ma allora, veniamo contaminati da ciò che viene da fuori? Sembrerebbe di sì: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Mt 5,28).
Ma i cristiani sono ben consapevoli che il processo interiore non è meccanico. Perché un pensiero venuto dall’esterno diventi un pensiero davvero nostro, occorre acconsentire interiormente: solo quando acconsentiamo alla tentazione, il male entra in noi e ci contamina.

Ciò esce dall’uomo questo sì contamina l’uomo
L’uomo non subisce meccanicamente gli influssi dall’esterno. Entra in contatto, in dialogo con la realtà. Il bambino prima chiede: “Che cosa è questo?”, e in seguito domanda: “A che cosa serve? Che cosa posso farci?”. Solo quando avrà risposta a queste domande verrà la decisione su cosa fare.
San Massimo Confessore spiega questo processo con un esempio simile a quello del portafoglio trovato per terra. Se chi lo trova ha l’idea di appropriarsi dei soldi, quest’idea gli viene solo quando vede il portafogli, cioè viene da una sollecitazione esterna. La decisione di prendere il portafoglio e tenerselo invece è una decisione interiore, che avviene all’interno del suo cuore. Anche se non si compie l’azione cattiva, la contaminazione comunque c’è stata; ma una cosa è il pensiero, un’altra è l’atto.
Un monaco orientale che ascoltava gli sfoghi di un giovane eccessivamente scrupoloso, che temeva di lasciarsi sedurre da tutte le tentazioni, gli rispose cosi: “Non temere le suggestioni, temi piuttosto le decisioni che prenderai sotto il loro influsso!”.

Dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive
A prima vista sembra che questa affermazione del Vangelo contraddica quello che è stato detto finora, cioè che i cattivi pensieri vengono dal di fuori e che all’interno del cuore avvenga il consenso, ma è così solo nel primo stadio.
Quando uno ha lasciato entrare il pensiero cattivo nel cuore, esso mette le radici e si moltiplica come l’erba cattiva nel terreno buono. Lo Pseudo Macario scrive che i pensieri cattivi sono come serpenti. Se li lasci entrare, si insediano e fanno il nido, e poi si mettono a covare. Shakeaspeare descrive lo stesso processo in modo psicologico. Otello, nel dramma “Il Moro di Venezia”, è presentato come un uomo onesto e fedele, che però ha creduto al seduttore che malignamente accusa sua moglie di infedeltà. Otello viene tormentato dalla gelosia, e l’ira lo soffoca fino a che diventa l’assassino della propria moglie. La passione che indebolisce e alla fine distrugge l’uomo comincia con piccoli sintomi, all’apparenza poco importanti. Invece bisogna tagliare la testa al serpente subito, appena spunta, perché quando il male è cresciuto diventa inattaccabile per qualsiasi medicina» (TOMÁŠ ŠPIDLÍK, Il vangelo di ogni giorno. Riflessioni sul vangelo feriale. Vol. III. Tempo per annum 1, pp. 72-74).

È bello collegare tutto questo al cenno a Massimiliano Kolbe che faceva sempre don Fabio commentando il Vangelo di domenica scorsa. Il santo Martire polacco “pensò che Auschwitz fosse un luogo dove compiere una missione. E illuminò quell’orrore con l’amore” (FABIO ROSINI, Di Pasqua in Pasqua. Commenti al Vangelo domenicale dell’anno liturgico B, San Paolo, Cinisello Balsamo 2022, p. 63).
Se Kolbe non si è lasciato sporcare da ciò che soffriva ad Auschwitz, è proprio vero che tutto ciò che viene dall’esterno non può e non deve indurmi al male. È l’affermazione della vera libertà dell’uomo. Ogni persona, con l’aiuto del Signore, è libera di amare in ogni circostanza, in ogni ambiente, in ogni situazione. Anche colui che mi delude, che mi ignora, che mi abbandona, che mi tradisce, io posso e devo amarlo. In questo consiste la gioia, non facile, ma possibile e altissima, perché “tutto posso in colui che mi dà la forza (Fil 4,13). È possibile applicare tutto ciò al dinamismo della tentazione. Pensiamo all’ira, alla vendetta, alle difficoltà nella purezza, nel perdono…

«Un caso significativo è la guarigione del sordomuto (cfr Mc 7,32-37). Il racconto dell’evangelista Marco mostra che l’azione sanante di Gesù è connessa con un suo intenso rapporto sia con il prossimo – il malato -, sia con il Padre. La scena del miracolo è descritta con cura così: “Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: Effatà, Apriti” (7,33-34). Gesù vuole che la guarigione avvenga “in disparte, lontano dalla folla”. Ciò non sembra dovuto soltanto al fatto che il miracolo deve essere tenuto nascosto alla gente per evitare che si formino interpretazioni limitative o distorte della persona di Gesù. La scelta di portare il malato in disparte fa sì che, al momento della guarigione, Gesù e il sordomuto si trovino da soli, avvicinati in una singolare relazione. Con un gesto, il Signore tocca le orecchie e la lingua del malato, ossia le sedi specifiche della sua infermità. L’intensità dell’attenzione di Gesù si manifesta anche nei tratti insoliti della guarigione: Egli impiega le proprie dita e, persino, la propria saliva. Anche il fatto che l’Evangelista riporti la parola originale pronunciata dal Signore – Effatà, ossia Apriti! – evidenzia il carattere singolare della scena.
Ma il punto centrale di questo episodio è il fatto che Gesù, al momento di operare la guarigione, cerca direttamente il suo rapporto con il Padre. Il racconto dice, infatti, che Egli «guardando … verso il cielo, emise un sospiro» (v. 34). L’attenzione al malato, la cura di Gesù verso di lui, sono legati ad un profondo atteggiamento di preghiera rivolta a Dio. E l’emissione del sospiro è descritta con un verbo che nel Nuovo Testamento indica l’aspirazione a qualcosa di buono che ancora manca (cfr Rm 8,23: “Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo”). L’insieme del racconto, allora, mostra che il coinvolgimento umano con il malato porta Gesù alla preghiera. Ancora una volta riemerge il suo rapporto unico con il Padre, la sua identità di Figlio Unigenito. In Lui, attraverso la sua persona, si rende presente l’agire sanante e benefico di Dio. Non è un caso che il commento conclusivo della gente dopo il miracolo ricordi la valutazione della creazione all’inizio della Genesi: “Ha fatto bene ogni cosa” (Mc 7,37). Nell’azione guaritrice di Gesù entra in modo chiaro la preghiera, con il suo sguardo verso il cielo. La forza che ha sanato il sordomuto è certamente provocata dalla compassione per lui, ma proviene dal ricorso al Padre. Si incontrano queste due relazioni: la relazione umana di compassione con l’uomo, che entra nella relazione con Dio, e diventa così guarigione. […] Cari fratelli e sorelle, la nostra preghiera apre la porta a Dio, che ci insegna ad uscire costantemente da noi stessi per essere capaci di farci vicini agli altri, specialmente nei momenti di prova, per portare loro consolazione, speranza e luce. Il Signore ci conceda di essere capaci di una preghiera sempre più intensa, per rafforzare il nostro rapporto personale con Dio Padre, allargare il nostro cuore alle necessità di chi ci sta accanto e sentire la bellezza di essere «figli nel Figlio» insieme con tanti fratelli» (BENEDETTO XVI, Udienza generale, 14-12-2011).

I LETTURA
«Non vi è cosa che più gradisca Dio quanto il vedere un’anima che con pazienza e pace soffre tutte le croci che egli le manda. Ciò fa l’amore, rende l’amante simile all’amato. […] Chi ama Gesù Cristo desidera vedersi trattato come fu Gesù Cristo, povero, straziato e disprezzato» (S. ALFONSO MARIA DE LIGUORI, Pratica di amar Gesù Cristo, cap. 5).


«L’autore sacro non esige che chi possiede beni li abbandoni, ma che sia consapevole della loro caducità, così da volgerli al servizio degli altri uomini e della società, e non solo a proprio vantaggio» (Bibbia di Navarra, vol. III, Ares, Milano 1994, p. 457).

I LETTURA

«Giacomo ci mette in guardia contro i pensieri che vengono dal nostro “cuore cattivo”. Esso falsifica l’immagine di Dio fino a farci dire: “Sono tentato da Dio”. Giacomo fa notare che “Dio non può essere tentato dal male ed egli non tenta nessuno. Ciascuno piuttosto è tentato dalle proprie passioni che lo attraggono e lo seducono” (1,14).
Possiamo illustrare questa considerazione dell’apostolo un episodio dell’Antico Testamento (cfr. 1Sam 26). Davide, che è perseguitato da Saul, si trova nella condizione di potersi vendicare e fargli del male; il suo compagno Abisai gli dice: “Oggi Dio ti ha messo nelle mani il tuo nemico” (1Sam 26,8). Se Davide avesse un cuore cattivo, incline alla vendetta, potrebbe pensare: “È vero, è proprio Dio che ha messo Saul nelle mie mani perché io possa farmi giustizia!”. Invece, poiché il cuore di Davide è buono, egli risponde ad Abisai: “Il Signore mi guardi dallo stendere la mano sul consacrato del Signore!” (1Sam 26,11).
Dio è bontà assoluta, e da lui provengono soltanto pensieri buoni e generosi. La Lettera di Giacomo dice: “Ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre” (1,17). Questa è un’affermazione fondamentale, che ci rivela pienamente il Padre, il quale “ci ha generati per mezzo della parola di verità, per essere una primizia delle sue creature” (1,18). Tutto è manifestazione della bontà paterna di Dio, e questo è per noi un motivo di gioia e di fiducia, anche nelle prove.
Accogliamo allora tutti i doni di Dio con amore riconoscente, serviamoci di essi per vincere il male e camminare, nella speranza, incontro a lui, con tutti i fratelli e con tutte le sorelle del mondo» (ALBERT VANHOYE, Il pane quotidiano della Parola. Volume secondo – Tempo ordinario/1, Apostolato della preghiera, Roma 2015, pp. 111-112).


«Gli apostoli sono preoccupati, perché pensano di non avere pane a sufficienza, e Gesù li rimprovera: “Non capite ancora e non comprendete?”. Dio non ha bisogno di un’abbondanza materiale per realizzare i suoi piani; anche quando c’è poco, o quasi niente, come nell’episodio della moltiplicazione dei pani, egli può realizzare la nostra salvezza. Gesù dice ai apostoli: “Non vi ricordate quando ho spezzati i cinque pani per i cinquemila, quante ceste colme di pezzi venne portato via? E quando ho spezzato i sette pani per i quattromila, quante sporte piene di pezzi avete portato via?” Gesù vuol far capire ai discepoli che ciò che è importante non è avere molto, ma avere con loro “il pane di Dio” che è Gesù stesso.
Questa tattica di Dio si manifesta ancora nella storia della Chiesa: alcune opere sorgono nella povertà, nell’insignificanza dei mezzi e delle persone agli occhi del mondo, ma Dio le rende grandi e fa produrre a esse frutti abbondanti.
Chiediamo al Signore di renderci capaci di accettare nella nostra vita anche i sacrifici, pur di rimanere uniti a lui e di avere con noi l’unico pane, che è lui stesso (ALBERT VANHOYE, Il pane quotidiano della Parola. Volume secondo – Tempo ordinario/1, Apostolato della preghiera, Roma 2015, pp. 110-111).


Quando giungono a casa e si trovano soli, lontani dalla folla, Gesù fa capire ai discepoli quanto sia grande la loro distanza dal Vangelo. È sempre così quando ci disponiamo all’ascolto della Parola di Dio. Ma è per la nostra crescita. Gesù, in quei giorni, ben più di loro era angosciato a motivo della morte che lo attendeva. I discepoli, impauriti più per la loro sorte che per quella del maestro, si erano invece messi a discutere su chi doveva essere il primo tra loro. Gesù, scendendo quasi al loro livello, accetta il desiderio che essi hanno di primeggiare, ma ne rovescia il contenuto: il primo, nella comunità cristiana, è colui che serve. È il primato assoluto dell’amore che deve regnare nelle comunità cristiane. Questo comando era talmente importante nella coscienza delle prime comunità che nei Vangeli questa frase di Gesù viene riportata per ben cinque volte. Dopo questa affermazione, Gesù prende un bambino, lo pone in mezzo a tutti e lo abbraccia. Ovviamente non si tratta di porre al centro in senso fisico quanto di attenzione. I piccoli e i deboli debbono essere al centro, ossia nel cuore stesso, della comunità: in essi infatti è presente il Signore. Chi accoglie (Gesù abbraccia quel bambino) uno di loro, accoglie Dio stesso e sarà salvo.

 

 

 

«Accogliere per servire

“Affida al Signore il tuo peso ed egli ti sosterrà” (Sal 54,23), cosi la liturgia ci fa oggi pregare nel salmo responsoriale. Affidarsi a Dio confidando nel suo aiuto è atteggiamento che si pone in forte contrasto con quello dei discepoli che discutono su chi tra loro fosse più grande (cf. Mc 9,34). Infatti la pretesa di supremazia, o l’ambizione a primeggiare, non svelano solamente un modo sbagliato di rapportarsi con gli altri; in esse è nascosta la radice di una relazione adulterata con Dio e con la propria vita, qual è il presumere di bastare a se stessi, di non avere bisogno di alcuno. È una radice insidiosa, poiché spesso si camuffa rivestendosi degli abiti apparentemente luminosi di una generosità senza riserve, di una dedizione encomiabile. Si suppone che gli altri abbiano sempre bisogno di noi, ma non noi degli altri. Si vive un servizio apparentemente disinteressato e gratuito, che però non lascia spazio al riconoscimento. Umile e accogliente, del mio bisogno e del fatto che non io, ma altri possano e debbano prendersene cura. Certo, Gesù richiama esigenze forti del servizio: “Se uno vuole essere il primo, l’ultimo di tutti e il servitore di tutti” (9,35). Nelle sue parole, tuttavia, occorre cogliere proprio questo nesso tra l’essere ultimi di tutti e servi di tutti. Bisogna servire ma collocandosi nell’ultimo posto, o almeno un gradino sotto chi intendiamo servire.

Il servizio autentico, infatti, non muove dall’alto verso il basso (si ridurrebbe a una sorta di paternalismo) ma dal basso verso l’alto, come quello vissuto da Gesù, che ê venuto nella nostra condizione umana collocandosi in quell’ultimo posto che è la croce. Non basta servire, occorre discernere se serviamo con l’atteggiamento di chi si fa grande o con quello di chi si riconosce piccolo e povero. Un riconoscimento, questo, che passa anche attraverso la scoperta, senza vergogna, del proprio limite, che deve poi tradursi nella disponibilità a lasciarsi aiutare.

Potremmo dire che sa servire nel modo giusto chi riconosce, con umiltà e senza arroganza, il bisogno di essere accolto nelle proprie debolezze.

Non per nulla Gesù accompagna la sua parola con un gesto: prende un bambino, lo pone in mezzo e dice: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me” (9,37). Forse possiamo ascoltare in questa parola di Gesù anche l’invito ad accogliere quel bambino che continua a essere presente in ciascuno di noi. Vorremmo, come i discepoli, essere grandi, autonomi, autosufficienti, dobbiamo invece riconoscere che da soli non ce la facciamo, che anche noi, come bambini, anziché confidare nella potenza delle nostre mani, abbiamo bisogno di tenderle verso qualcuno che sappia afferrarle con tenerezza e forza. Questa diviene poi la condizione per accogliere con il giusto atteggiamento la piccolezza degli altri, che sapremo servire con verità perché la riconosceremo uguale alla nostra.

Gesù stesso, probabilmente, annuncia ai suoi discepoli il destino che lo attende con il desiderio di trovare in loro sostegno e conforto lungo la via così ardua che ha iniziato a percorrere. Anche lui è un piccolo che nel suo bisogno cerca accoglienza; “… accoglie me”. I discepoli invece pensano ad altro, non comprendono le sue parole, hanno timore di interrogarlo (cf. 9,32).

Giacomo, nella sua lettera, ricorda che molto spesso i conflitti che si creano tra noi nascono da passioni sbagliate, quali la brama di possesso, l’invidia, la superbia della vita, ma anche l’incapacità di chiedere. “Chiedete male”›, precisa, perché chiedete “per soddisfare le vostre passioni»” (Gc 4,3). Occorre invece imparare a chiedere in modo diverso, non per soddisfare se stessi e le proprie ambizioni, ma per lasciarsi accogliere nei propri limiti e bisogni.

 

Padre, come bambini bisognosi del tuo sostegno veniamo a te, per affidare a te il nostro peso. Tu che resisti ai superbi, ma agli umili doni la tua grazia, accordaci di percorrere la via della piccolezza, perché imparando a servire e a lasciarci servire nel modo giusto, giungiamo ad accogliere in noi e tra noi il tuo Figlio Gesù. E lui la nostra pace e la santificazione dei nostri cuori!» (Luca Fallica, Accogliere per servire, in Messa e preghiera quotidiana, maggio 2016, pp. 186-188).

 


Quando giungono a casa e si trovano soli, lontani dalla folla, Gesù fa capire ai discepoli quanto sia grande la loro distanza dal Vangelo. È sempre così quando ci disponiamo all’ascolto della Parola di Dio. Ma è per la nostra crescita. Gesù, in quei giorni, ben più di loro era angosciato a motivo della morte che lo attendeva. I discepoli, impauriti più per la loro sorte che per quella del maestro, si erano invece messi a discutere su chi doveva essere il primo tra loro. Gesù, scendendo quasi al loro livello, accetta il desiderio che essi hanno di primeggiare, ma ne rovescia il contenuto: il primo, nella comunità cristiana, è colui che serve. È il primato assoluto dell’amore che deve regnare nelle comunità cristiane. Questo comando era talmente importante nella coscienza delle prime comunità che nei Vangeli questa frase di Gesù viene riportata per ben cinque volte. Dopo questa affermazione, Gesù prende un bambino, lo pone in mezzo a tutti e lo abbraccia. Ovviamente non si tratta di porre al centro in senso fisico quanto di attenzione. I piccoli e i deboli debbono essere al centro, ossia nel cuore stesso, della comunità: in essi infatti è presente il Signore. Chi accoglie (Gesù abbraccia quel bambino) uno di loro, accoglie Dio stesso e sarà salvo.

 

 

 

«Accogliere per servire

“Affida al Signore il tuo peso ed egli ti sosterrà” (Sal 54,23), cosi la liturgia ci fa oggi pregare nel salmo responsoriale. Affidarsi a Dio confidando nel suo aiuto è atteggiamento che si pone in forte contrasto con quello dei discepoli che discutono su chi tra loro fosse più grande (cf. Mc 9,34). Infatti la pretesa di supremazia, o l’ambizione a primeggiare, non svelano solamente un modo sbagliato di rapportarsi con gli altri; in esse è nascosta la radice di una relazione adulterata con Dio e con la propria vita, qual è il presumere di bastare a se stessi, di non avere bisogno di alcuno. È una radice insidiosa, poiché spesso si camuffa rivestendosi degli abiti apparentemente luminosi di una generosità senza riserve, di una dedizione encomiabile. Si suppone che gli altri abbiano sempre bisogno di noi, ma non noi degli altri. Si vive un servizio apparentemente disinteressato e gratuito, che però non lascia spazio al riconoscimento. Umile e accogliente, del mio bisogno e del fatto che non io, ma altri possano e debbano prendersene cura. Certo, Gesù richiama esigenze forti del servizio: “Se uno vuole essere il primo, l’ultimo di tutti e il servitore di tutti” (9,35). Nelle sue parole, tuttavia, occorre cogliere proprio questo nesso tra l’essere ultimi di tutti e servi di tutti. Bisogna servire ma collocandosi nell’ultimo posto, o almeno un gradino sotto chi intendiamo servire.

Il servizio autentico, infatti, non muove dall’alto verso il basso (si ridurrebbe a una sorta di paternalismo) ma dal basso verso l’alto, come quello vissuto da Gesù, che ê venuto nella nostra condizione umana collocandosi in quell’ultimo posto che è la croce. Non basta servire, occorre discernere se serviamo con l’atteggiamento di chi si fa grande o con quello di chi si riconosce piccolo e povero. Un riconoscimento, questo, che passa anche attraverso la scoperta, senza vergogna, del proprio limite, che deve poi tradursi nella disponibilità a lasciarsi aiutare.

Potremmo dire che sa servire nel modo giusto chi riconosce, con umiltà e senza arroganza, il bisogno di essere accolto nelle proprie debolezze.

Non per nulla Gesù accompagna la sua parola con un gesto: prende un bambino, lo pone in mezzo e dice: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me” (9,37). Forse possiamo ascoltare in questa parola di Gesù anche l’invito ad accogliere quel bambino che continua a essere presente in ciascuno di noi. Vorremmo, come i discepoli, essere grandi, autonomi, autosufficienti, dobbiamo invece riconoscere che da soli non ce la facciamo, che anche noi, come bambini, anziché confidare nella potenza delle nostre mani, abbiamo bisogno di tenderle verso qualcuno che sappia afferrarle con tenerezza e forza. Questa diviene poi la condizione per accogliere con il giusto atteggiamento la piccolezza degli altri, che sapremo servire con verità perché la riconosceremo uguale alla nostra.

Gesù stesso, probabilmente, annuncia ai suoi discepoli il destino che lo attende con il desiderio di trovare in loro sostegno e conforto lungo la via così ardua che ha iniziato a percorrere. Anche lui è un piccolo che nel suo bisogno cerca accoglienza; “… accoglie me”. I discepoli invece pensano ad altro, non comprendono le sue parole, hanno timore di interrogarlo (cf. 9,32).

Giacomo, nella sua lettera, ricorda che molto spesso i conflitti che si creano tra noi nascono da passioni sbagliate, quali la brama di possesso, l’invidia, la superbia della vita, ma anche l’incapacità di chiedere. “Chiedete male”›, precisa, perché chiedete “per soddisfare le vostre passioni»” (Gc 4,3). Occorre invece imparare a chiedere in modo diverso, non per soddisfare se stessi e le proprie ambizioni, ma per lasciarsi accogliere nei propri limiti e bisogni.

 

Padre, come bambini bisognosi del tuo sostegno veniamo a te, per affidare a te il nostro peso. Tu che resisti ai superbi, ma agli umili doni la tua grazia, accordaci di percorrere la via della piccolezza, perché imparando a servire e a lasciarci servire nel modo giusto, giungiamo ad accogliere in noi e tra noi il tuo Figlio Gesù. E lui la nostra pace e la santificazione dei nostri cuori!» (Luca Fallica, Accogliere per servire, in Messa e preghiera quotidiana, maggio 2016, pp. 186-188).

 

«Il contarsi è la malattia di sempre che contagia ogni gruppo, associazione, consesso umano dove gli eletti fanno capannello tra loro impedendo agli altri di avvicinarsi, e permettendolo solo dopo tanto bussare e un lungo noviziato. È paradossale come questo atteggiamento sia presente nelle nostre parrocchie e nei gruppi ecclesiali che, da lievito per la massa, finiscono con innalzare barricate e ostruire le porte delle nostre chiese impedendo ai lontani, anche solo ai curiosi, di avvicinarsi. Anche il chierichetto che suona il campanello o la signora che lava i sacri lini, il senatore dei ministranti o l’anziana che intona il rosario, chi ha il compito di distribuire i foglietti o di indicare la pagina e il numero del canto, finiscono con il ritenere il servizio che svolgono come un privilegio da condividere con altri ben gerarchizzati; e magari da trasmettere in eredità a figli e nipoti, con scene di gelosia se il parroco, una tantum, affida quel compito ad un altro. Siamo ancora chiusi nel criterio di esclusione, mentre papa Francesco ci tempesta con messaggi sull’apertura e sull’essere aperti a 360 gradi. In noi e nei nostri amici, nei nostri collaboratori si è più inclini ad accogliere o a mettere alla porta? Gesù nel vangelo continuamente, a fronte di chiusure e settorializzazioni, crea scompiglio accogliendo e dialogando con chi è marginalizzato o già inserito nella lista dei peccatori. Come è possibile che la nostra presunta virtù debba innalzarsi sulla pedana dei vizi degli altri? Come mai tendiamo a chiudere anziché ad aprire? Con la sua risposta il Maestro mi indica anche una visione più ottimista della realtà, dove la grazia opera, con solennità, attraverso i canali ufficiali, ma silenziosamente procede anche in viottoli sconosciuti. Chiedo l’apertura di cuore e lo sguardo che sappia percepire la grazia operante, sempre, dovunque e in modo misterioso. Chiedo di essere liberato da ogni settarismo e da ogni visione angusta che uccide la magnanimità intesa come anima grande.

Preghiera Donami, Signore, l’umiltà di servire senza far pesare il mio ruolo e senza attaccarmi ad esso. Donami la libertà di vedere, di riconoscere, di contemplare la tua opera nella creazione, nella redenzione, nella vita della chiesa e del mondo, come grazia che mi viene incontro da più parti e mi salva» [ARTURO AIELLO, Magnanimità, in Messa Meditazione 18 (2018) maggio pp. 193-194].

 

«Lettura
Per il discepolo ogni parola, ogni frase ha una importanza fondamentale, come se fosse l’unica eredità lasciata dal maestro. Ci salveremo per aver amato e osservato una sola parola del vangelo, ma nessuno sa in anticipo quale sarà la parola cardine della sua vita. Per questo raccogliamo come perla preziosa ogni espressione.

Meditazione
Per i pellegrini sul cammino di Santiago c’è spesso la gradita sorpresa di un bicchiere d’acqua fresca, offerto sulla soglia della casa da poveri che gratuitamente vengono incontro al bisogno fondamentale del cammino e, forse senza saperlo, mettono in pratica questa parola del Signore. A volte basta anche una parola di conforto per rendere meno duro un cammino. Hai mai detto Coraggio! al tuo parroco, o a chi porta il peso della conduzione del tuo gruppo?
Le espressioni forti sulla mano da tagliare, sul piede da amputare, sull’occhio da cavare sono paradossali, ma esprimono bene il proposito di prendere sul serio la vita cristiana. […] Tanti peccati si compiono a partire da uno sguardo o dal desiderio di prendere. Questa parola di Gesù va presa sul serio rispetto a cose, persone, abitudini, relazioni che ci sono di ostacolo rispetto ad una sequela radicale.
Sant’Ignazio dopo aver ricordato all’uomo che vive per lodare, riverire, servire Dio e salvare la sua anima in questo mondo, afferma che tutte le altre cose sulla faccia della terra devono aiutarlo a realizzare il fine per cui è al mondo. “Da ciò consegue che l’uomo deve servirsene tanto quanto lo aiutano a conseguire il fine, e tanto se ne deve discostare per quanto lo allontanano”.
Alla luce di questo testo definito “manifesto di libertà”, ciascuno di noi vede il mondo diviso in due parti: da un lato pensieri, azioni, situazioni, parole, relazioni, persone che ci aiutano ad essere salvi e felici, che devono essere riconosciute e frequentate; dall’altro, parole, opere, situazioni che sono percepite “nemiche” della mia salvezza e che devono essere evitate o allontanate. Chi vuole essere felice deve avere coraggio.

Preghiera Donami, Signore, il coraggio che sostiene anche scelte difficili, e liberami dalla debolezza che sceglie vie facili e rimanda le soluzioni. Donami l’ardire dei santi che hanno percorso vie difficili pur di non perderti di vista, pur di non perdersi, pur di non perdere coloro che erano stati loro affidati.

Agire
PROPOSITO Taglierò, toglierò, cancellerò dalla rubrica del cellulare alcuni numeri pericolosi» [ARTURO AIELLO, Il coraggio di essere felici, in Messa Meditazione 18 (2018) maggio pp. 199-200].

Una comunità che si interroga sulla propria sorte: in cosa consiste il piacere di seguire Gesù. Il quesito è ancora attuale. Pietro fa ancora una volta da portavoce della comunità. La sequela non è solo difficile e foriera di sacrifici. Realizza l’aspirazione di ogni uomo a ritrovare se stesso, come l’evangelista aveva già detto raccontando il fascino della sua esperienza personale con Gesù che «nel rapporto personale, ai suoi svela il senso di ogni cosa» (Mc 4,34). Vale la pena essere dei suoi. La separazione dai parenti forse richiama l’incomprensione della famiglia ogni volta che un giovane palesa la sua voglia di far sul serio nella sequela del Cristo. Il centuplo sono i frutti della condivisione con gli altri membri della comunità cristiana, ma anche la libertà dalle cose, di chi non ha niente di suo ma possiede ogni cosa, come Francesco d’Assisi e quanti provano ancor oggi a fare altrettanto. Persecuzioni e incomprensioni sono i sassi d’inciampo della vita presente, non gli dare troppo peso: poi ci sarà la vita che non finisce. La pace è il frutto più prelibato dell’albero della vita.

 

Marco ci aveva già avvertito: il parlare per parabole è destinato soprattutto a coloro “che sono di fuori”, a noi, ai tanti che arrivano per fede al Vangelo. La vigna nella tradizione della Bibbia è il progetto di Dio, Israele antico, ma anche quanti successivamente sono chiamati a lavorare per il Regno. Si parla anche di noi. Il padrone affida la vigna risanata ai vignaioli e parte. Il verbo principale di tutta la narrazione è questo atto di fiducia e di affidamento di quel padrone della vigna, nella quale si ravvisa Dio stesso. Rallegrati amico che con fatica operi dentro la realtà quotidiana. Ricorda che Dio si fida di te. L’unica risposta che Dio si aspetta da noi è che siamo responsabili; che siamo suoi amici, che abbiamo il senso del dovere e la voglia di impegnarci. La storia ci è affidata: la piccola sequenza delle vicende sulle quali abbiamo da fare ogni giorno, ma anche le sorti dell’umanità, su cui con l’opinione pubblica ci è dato di interagire. Alla consegna, che è esplicita nel XVI capitolo di Marco, corrisponde fin da questa parabola dei vignaioli la certezza che non siamo i padroni della vigna, ma operai abili e stimati, ingaggiati per il Regno.

 

 

Gesù, di fronte al rifiuto dei capi del popolo di accogliere la sua autorità sulla loro vita e su quella d’Israele, narra la parabola dei vignaioli omicidi. Gli ascoltatori sanno benissimo cosa sia la vigna: il popolo d’Israele. Spesso i profeti ne hanno parlato. E sanno anche chi è il padrone che l’ha piantata, custodita e coltivata: il Signore Iddio. Con un rapidissimo sguardo sulla storia del popolo d’Israele, Gesù si presenta come il figlio inviato per salvare la vigna. E la salva anche a costo di essere cacciato e ucciso. Con queste parole Gesù chiarisce agli ascoltatori da dove nasce la sua autorità: dall’amore di Dio per il suo popolo. È l’amore senza limiti che Gesù vive per il popolo di Dio che fonda la sua autorità e quella della sua Parola. Non è il ruolo che sostiene l’autorità di Gesù, bensì il suo amore e il servizio sino alla morte. È questa la legge che presiede la vita della comunità cristiana. E Gesù ne è la manifestazione più alta. Egli ama i suoi, quelli che il Padre gli ha dato, più della sua stessa vita. Per questo ha autorità sulla vigna. Cercarono di catturarlo, ma ebbero paura, scrive Marco. È per sottolineare che non sono loro a metterlo a morte; è Gesù stesso che si consegna perché la vigna non sia abbandonata, ma cresca e porti frutto. Come non accogliere un uomo che ama in una maniera così grande.

Gesù si misura con i farisei e gli erodiani. È lecito pagare il tributo ai romani? Quale
intesa con il mondo che ci circonda? La questione investe temi che sono tuttora di
straordinaria attualità. Il fatto: una moneta d’argento sulla quale è coniato da un lato il
busto dell’imperatore con la corona d’alloro, simbolo della sua dignità divina:
“Tiberius Caesar Divi Augusti Filius Augustus”. Dall’altro lato l’intitolazione
Pontifex Maximus, sommo sacerdote e la madre di Tiberio, Livia, simbolo della pace
celeste. La politica può essere assolutizzata e “divinizzata”? Quanti dèi falsi sono
ancora nel nostro immaginario collettivo e quanta considerazione è data al potere e
agli strumenti per conseguirlo! I cristiani sono ancora capaci di difendere il bene
comune e di non divinizzare i reggitori dello Stato. Una sana laicità dello stato è
garanzia per tutti: non cerchiamo privilegi, non vogliamo interferenze. La cultura
della legalità ci appartiene fin dal tempo degli Apostoli. Il primato di Dio e i diritti
della coscienza sono parte non negoziabile della nostra identità di cattolici.

La giornata di Gesù continua ancora. Questa volta sono i farisei e gli erodiani che gli
si avvicinano. E gli pongono la questione del tributo a Cesare. Fin dall’inizio si nota
la loro doppiezza. Essi adulano Gesù per poi tendergli un tranello. Ma non è con la
furbizia che ci si accosta al Vangelo. La parola di Gesù non si compra con le proprie
astuzie o con raggiri. Essa è chiara e buona, senza infingimenti e sotterfugi. Gesù non
accetta la falsità e sposta la questione. Se nella moneta c’è l’immagine di Cesare sia
ridata a lui. Ma bisogna altresì ridare a Dio tutto ciò che ha la sua impronta, la sua
immagine. È su questo che Gesù chiede la decisione: date a Dio quel ch’è di Dio. E
l’uomo è di Dio, perché è nell’uomo che è iscritta l’immagine di Dio. L’uomo, ogni
uomo, anche il più piccolo e indifeso, appartiene a Dio e a Dio deve tornare. C’è un
primato assoluto di Dio sulla vita dell’uomo che va difeso ad ogni costo. Come pure
si deve rispetto alla società civile e alle sue leggi. Questa pagina evangelica deve
aiutare al rispetto e alla tolleranza, sapendo però che nessuno può ferire e umiliare la
vita dell’uomo. Solo Dio è Padre e Signore di tutti.

«La promessa che saremo come angeli è l’annuncio che, nella vita eterna, la potenza di Dio ci libererà dalla legge naturale della distruzione.

 

Non prenderanno moglie né marito

Il matrimonio è un sacramento d’amore, la più intima unione possibile. Ma poiché il matrimonio è anche contatto carnale, comporta la divisione e la separazione.

Due persone che si uniscono in matrimonio escludono di vivere con altri la stessa unione intima. Il matrimonio per legge della materia è impenetrabile ed esclusivo.

La legge spirituale è diversa. Il famoso predicatore di Hollywood F. Kelly, a suo tempo lo spiegava in un modo molto chiaro e molto americano. Tu mi dai un dollaro e io do un dollaro a te, e nessuno di noi due diventerà più ricco con questo regalo. C’è un’altra possibilità: io ti do un bel pensiero e tu mi comunichi una buona idea, e ora io ho due pensieri e anche tu ne hai due. Con il contatto spirituale nessuno si impoverisce, anzi, guadagna qualcosa.

Come dev’essere il matrimonio cristiano? Un’unione sia carnale che spirituale. La carnalità diminuisce, la spiritualità cresce, e crescerà fino alla sua pienezza nell’eternità, quando il matrimonio diventerà veramente spirituale, perderà la sua esclusività e si aprirà all’amore divino.

 

La vita angelica

Crediamo nella resurrezione e nella vita eterna, ma la collochiamo in un futuro molto lontano, dopo il giudizio finale. Eppure il vangelo parla della vita eterna nel tempo presente: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna” (Gv 6,54). La vita eterna è ancora nascosta, ma già si manifesta attraverso dei segni.

I santi si distinguono perché in ogni situazione della vita quotidiana vivevano già secondo le esigenze della vita eterna, per esempio nella scelta del celibato e della verginità. La vita religiosa, nei libri liturgici e giuridici orientali, si chiama “vita angelica”. Gli autori sottolineano che non bisogna confondere questo tipo di vita con quella dello scapolo o della zitella, che fanno pensare alla solitudine e alla tristezza di una vita irrealizzata. Chi rinuncia liberamente al matrimonio ha intuito che gioia sia vivere la vita terrena con il ritmo della vita eterna» (Špidlík Tomáš, Il vangelo di ogni giorno. Riflessioni sul vangelo feriale. Vol. III, Lipa, Roma 2001, pp. 127-128).

 

 

È l’ultimo dibattito di Gesù nel tempio. Avviene con i sadducei sul tema della resurrezione, alla quale essi non credono. Usando lo stile rabbinico, essi si profondono in una esercitazione teorica sul matrimonio che conduce all’assurdo. Di qui, essi concludono, l’impossibilità della fede nella resurrezione. Gesù non risponde sul piano della razionalità teorica, ma su quello delle Scritture e della potenza di Dio. Riprende anzitutto le parole rivolte da Dio stesso a Mosè dal roveto ardente, quando gli aveva detto che era il Signore dei vivi e dei morti. Gesù afferma quindi che Dio è il creatore e il Signore della vita e protegge i suoi figli salvandoli dal potere della morte. In queste parole evangeliche c’è come l’apertura di uno spiraglio sulla Gerusalemme del cielo: in essa i credenti, liberati dai vincoli della carne, vivranno come angeli, ossia saranno animati dallo Spirito che è più forte della carne. Ma questa vita dei cieli inizia già da questa terra quando i credenti si lasciano guidare dalla parola del Signore che è seme di eternità e di incorruttibilità.

«La figura del discepolo perfetto di Gesù.

“I poveri in spirito” sono gli umili; si possono paragonare a un giunco che piega sotto la pressione del vento.

Il povero in spirito sopporta tutto con pazienza; non condanna, non giudica; resta sempre accogliente, comprensivo, disponibile, in un sì continuo a Dio e ai fratelli.

“I miti”, i mansueti sono le persone tranquille e pacifiche, il contrario degli irosi, dei violenti. Il mansueto è lento alla collera, sopporta la contraddizione, è privo di aggressività, evita le querele e i litigi. La mitezza è un frutto dello Spirito Santo (Gal 5,23).

“I misericordiosi” sono quelli che perdonano i torti subiti.

Non sognano minimamente di vendicarsi, ma trattano da amici coloro che li offendono.

“I pacificatori” sono quelli che mettono pace negli ambienti in cui c’è diffidenza e litigi; aiutano le persone a riconciliarsi; portano dappertutto la serenità e la calma.

“I puri di cuore” sono quelli che per presentarsi a Dio (nel Tempio) vogliono essere in grazia. Nel Salmo 50 la comunità domanda a Dio che purifichi il loro cuore perché possano accostarsi a Lui. La purezza è la condizione richiesta per accostarsi a Dio e rendergli culto.

“I perseguitati” sono quelli che sopportano i cattivi trattamenti per un doppio motivo: a causa della giustizia (perché vivono fedeli a Dio) e a causa di Gesù Cristo. Hanno quindi un atteggiamento di contestazione, di disaccordo con la vita del mondo. Ma Dio li stracolma di gioia.

 

La Parola per me, Oggi

Sforzarsi di vivere le Beatitudini oggi, può renderci come Elia, testimoni con la vita del bisogno di Dio e della gioia segreta nascosta dentro la Sua Parola vissuta. La nostra vita sarà allora come un oasi nel deserto» (In ascolto. Messalino gam, giugno 2016, p. 28).

«La prima parola che Dio rivolge a Elia è una parola che richiede al profeta un radicale atto di fede: deve riprendere nel deserto il cammino di fiducia richiesto a Israele nell’Esodo, accettando da Dio solo il nutrimento e l’acqua, in un abbandono totale a quella parola che gli viene rivolta. Ed è impressionante per un profeta cosi attivo, così presente «nella storia del suo popolo, questo comando di Dio che di fatto riduce Elia a una impossibilità di agire. È Dio, la sua parola, e non il profeta, il protagonista della storia di Israele: “Vattene di qui, dirigiti verso oriente; nasconditi presso il torrente Cherìt […]. Berrai dal torrente e i corvi per mio comando ti porteranno da mangiare” (1Re 17,3-4). All’inizio della sua missione, Dio vuole il profeta in disparte, nell’apparente inattività, nell’impotenza. Elia deve capire qual è la forza che gli permette di agire in mezzo agli uomini: deve stare alla presenza del Signore, perché solo lì è in grado di capire quali passi fare, quali luci cercare. E soprattutto capire che la forza è del Signore, non sua. Per essere davvero profeta di Dio e godere della beatitudine della sua presenza, Elia deve imparare a essere un povero.

Ed è proprio a colui che si abbandona come povero nella mani di Dio che Gesù rivela la beatitudine del Regno. «Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli» (Mt 5,1). Di fronte a Gesù c’è una folla di uomini e donne poveri, che faticano a vivere; uomini e donne che devono affrontare ogni sorta di difficoltà, di ingiustizie, di sofferenze; uomini e donne che hanno solo più una speranza, la misericordia e la giustizia di Dio. Gesù sale su di un’altura e guarda tutti costoro, e dall’abbraccio di questo sguardo pieno di compassione scaturisce quella paradossale e consolante parola che solo Dio può avere il coraggio di pronunciare su questi uomini e queste donne: «Beati […]. Beati voi […] grande è la vostra ricompensa nei cieli›› (5,3-12). Potremmo dire che ogni beatitudine pronunciata da Gesù sulla debolezza dell’uomo è il riflesso dello sguardo di Dio; ci rivela, perciò, come Dio guarda la storia dell’uomo, ciò che da lui è amato. E Dio ama non la povertà, il pianto, la sofferenza, la fame e la sete, ma ama l’uomo povero, l’uomo affamato e assetato, l’uomo che cerca giustizia, che cerca la pace, l’uomo che è vittima del potere; Dio ama ogni uomo che sperimenta tutta la fatica del vivere e la fragilità della sua esistenza, e amandolo, si pone accanto a lui, ne condivide il cammino. E un Dio cosi ha un volto, Gesù. Solo da Gesù e in Gesù, noi possiamo accogliere quella parola che altrimenti sarebbe un insulto alle sofferenze dell’uomo: solo da un Dio che soffre con l’uomo noi possiamo accogliere la parola «beato›› e porla come sigillo su ogni povertà dell’uomo.

E a questo punto possiamo comprendere a quale livello di conversione siamo chiamati. La vera conversione è la conversione a Dio, al Dio che Gesù ci ha rivelato, alla sua logica, al suo sguardo.

È la stessa conversione che ha dovuto compiere il profeta Elia.

E questa conversione è duplice. Richiede anzitutto la scoperta continua dello sguardo di Dio su di noi, quello sguardo di compassione che abbraccia le nostre povertà e le accoglie, quello sguardo che dice su tutte le fatiche della nostra vita “beato”, dandoci cosi l’occasione di fare esperienza dell’amore che salva. Ma questa conversione richiede anche la fatica di salire su quell’altura su cui Gesù ci invita come discepoli e guardare, con i suoi stessi occhi, ogni uomo e ogni donna, donando loro la gioia e la speranza del Regno. Si diventa portatori di beatitudine solo quando lo sguardo di Gesù sull’uomo è il nostro stesso sguardo, quando la sua stessa passione per il Regno diventa la nostra. La vera conversione, quella che è nello stesso tempo dono e fatica, è la conversione di tutta la nostra vita al volto di Dio.

Nella tua povertà, o Signore, è la nostra ricchezza! Nella tua mitezza, o Signore, è la nostra pace/ Nella tua misericordia, o Signore, è la nostra forza! In te ogni nostra debolezza diventa luce del Regno, sguardo nuovo su ogni uomo, beatitudine e pace.

Veramente è beato chi trova in te la sua gioia» (Piovano Adalberto, Messa e preghiera quotidiana, giugno 2016, pp. 62-65).

Le Beatitudini esprimono che cosa significa diventare discepoli di Gesù. Sono una biografia interiore di Gesù, un suo ritratto. Egli è il vero povero, il vero mite, il vero puro di cuore, l’operatore di pace, Colui che soffre per amore di Dio. Indicano la strada alla Chiesa, sono indicazioni per ogni fedele, benché in modo diverso a seconda della molteplicità delle vocazioni» (Benedetto XVI).

 

«Matteo dà al cosiddetto discorso della montagna un rilievo tutto particolare; fa salire Gesù su di un monte, il luogo per eccellenza da cui Dio ammaestra, come per suggerire un parallelo tra l’antica e la nuova alleanza. La prima fu sancita sul Sinai, la seconda riceve il suo sigillo su questo monte. Gesù ha davanti agli occhi una folla che lo segue da più giorni. Possiamo immaginarlo mentre guarda quegli uomini e quelle donne: ne conosce se non le storie, certamente le domande e i bisogni. E ne ha compassione. Ed è sul sentimento forte di compassione che si trova la ragione di questa scena evangelica. Le sue prime parole sono sulla felicità. O meglio su chi è felice. Gesù vuole proporre la sua idea di felicità e di beatitudine. Già i salmi avevano abituato i credenti di Israele al senso della beatitudine: «Beato l’uomo che spera nel Signore, beato l’uomo che ha cura del debole, beato l’uomo che confida nel Signore». Quest’uomo poteva dirsi felice. Gesù continua su questa linea e afferma che beati sono gli uomini e le donne poveri di spirito (e non vuol dire ricchi di fatto, ma poveri spiritualmente), e poi sono beati i misericordiosi, gli afflitti, i miti, gli affamati di giustizia, i puri di cuore, i perseguitati a causa della giustizia ed anche coloro che sono insultati e perseguitati a causa del suo nome. Parole come queste non le aveva dette mai nessuno; e i discepoli non le avevano mai udite sino a quel momento. E a noi che le ascoltiamo oggi paiono davvero molto lontane. Sembrano del tutto irreali. Potremmo anche dire che sono belle, ma certamente impossibili. Eppure, non è così, per Gesù. Egli vuole per noi una felicità vera, piena, robusta. In verità, quel che a noi sta più a cuore è vivere un po’ meglio, un po’ più tranquilli. E nulla più. Non vogliamo essere beati davvero. La beatitudine è diventata una parola estranea, troppo piena, eccessiva; è una parola così forte e così carica da essere troppo diversa dalle nostre soddisfazioni, spesso insignificanti. Questa pagina evangelica ci strappa da una vita banale e ci spinge verso una vita piena, verso una gioia ben più profonda di quella che noi possiamo anche solo immaginare. Le beatitudini non sono troppo alte per noi, come non lo erano per quella folla che per prima le ascoltò. Esse hanno un volto davvero umano: il volto di Gesù. È lui l’uomo delle beatitudini, l’uomo povero, mansueto e affamato di giustizia, l’uomo appassionato e misericordioso, l’uomo perseguitato e messo a morte. Guardiamo quest’uomo e seguiamolo; saremo beati anche noi» (Vincenzo Paglia 11-6-2007).

«Questo brano è chiamato discorso delle antitesi. Matteo solleva il grave problema del rapporto tra Gesù e la legge, tra il Vangelo e le norme morali. La frase «Avete inteso che fu detto, io invece vi dico», che scandisce come un ritornello questa pagina del Vangelo, potrebbe indurre a pensare che si tratti di una sorta di abolizione della legge. Tuttavia Gesù fin dall’inizio chiarisce: «Non sono venuto ad abrogare, ma a compiere». Ed è proprio il compimento della legge il centro di questo brano evangelico. Per Gesù si tratta di diventare «Perfetti come perfetto è il vostro Padre che è nei cieli» (v. 48), richiamando la frase analoga del Levitico: «Siate santi, perché sono io Santo, il Signore vostro Dio!» (Lv 19,2). Egli stesso è il completamento della parola di Dio che risuona sulla terra sin da Abramo. Gesù, infatti, non aggira le disposizioni date da Dio, le porta fin nel più profondo; non cambia neppure uno iota (la lettera più piccola dell’alfabeto ebraico), perché nessuna parola della Scrittura va disattesa, anche la più piccola. Il discepolo, seguendo il Maestro, deve anche lui portare a compimento nella vita di ogni giorno quanto è scritto nella Bibbia» (Vincenzo Paglia, 13-6-2007)

 

«Per descrivere l’esperienza di fede o il nostro incontro con Dio, noi usiamo molti verbi. Ascoltare, parlare, credere, vedere, obbedire.

Quali verbi sono per me più significativi?

È fondamentale il verbo rispondere.

Dio parla e noi rispondiamo. Noi parliamo e Dio risponde.

Dio non è solo Parola, è dialogo. Con noi parla, ascolta, risponde.

Ecco la differenza tra Dio e Baal. Noi possiamo conoscere davvero Dio quando percepiamo che è un Dio che risponde. Certo, la sua risposta non è sempre quella che noi attenderemmo. Spesso non riusciamo ad ascoltarla perché ci sorprende, ci apre prospettive diverse rispetto a quelle alle quali siamo affezionati o abituati, scombina non poco i nostri progetti, scardina i nostri pregiudizi. Lo ricorda anche Elia: il Dio che risponde è sempre il Dio che converte il cuore. E questo vale non solo per i falsi profeti chiamati a convertirsi da un idolo muto al vero Dio che parla e che risponde; vale per Elia stesso, che qui chiede a Dio di manifestarsi nel segno di un fuoco che tutto consuma, ma che poi dovrà giungere a comprendere, sul monte Oreb, che Dio ama parlare con il sottile silenzio di una brezza leggera, che ristora e persuade interiormente. E per Elia il faticoso cammino, attraverso il deserto, dal Carmelo all’Oreb rappresenterà anche il necessario cammino di conversione per conoscere in modo più vero il mistero di Dio» (Luca Fallica, Rispondere!, in Messa e preghiera quotidiana, 2018, giugno, pp. 140-142).

 

«Nel «Discorso della Montagna», che costituisce la magna charta della morale evangelica, Gesù dice: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento» (Mt 5,17). Cristo è la chiave delle Scritture: «Voi scrutate le Scritture: esse parlano di me» (cf Gv 5,39); è il centro dell’economia della salvezza, la ricapitolazione dell’Antico e del Nuovo Testamento, delle promesse della Legge e del loro compimento nel Vangelo; è il legame vivente ed eterno tra l’Antica e la Nuova Alleanza. Commentando l’affermazione di Paolo «Il termine della legge è Cristo» (Rm 10,4), sant’Ambrogio scrive: «Fine non in quanto mancanza, ma in quanto pienezza della legge: questa si compie in Cristo (plenitudo legis in Christo est), dal momento che Egli è venuto non a dissolvere la legge, ma a portarla a compimento. Allo stesso modo in cui c’è un Testamento Antico, ma ogni verità sta all’interno del Nuovo Testamento, così avviene per la legge: quella che è stata data per mezzo di Mosè è figura della vera legge. Dunque, quella legge mosaica è copia della verità».

Gesù porta a compimento i comandamenti di Dio, in particolare il comandamento dell’amore del prossimo, interiorizzando e radicalizzando le sue esigenze: l’amore del prossimo scaturisce da un cuore che ama, e che, proprio perché ama, è disposto a vivere le esigenze più alte. Gesù mostra che i comandamenti non devono essere intesi come un limite minimo da non oltrepassare, ma piuttosto come una strada aperta per un cammino morale e spirituale di perfezione, la cui anima è l’amore (cf Col 3,14). Così il comandamento «Non uccidere» diventa l’appello ad un amore sollecito che tutela e promuove la vita del prossimo; il precetto che vieta l’adulterio diventa l’invito ad uno sguardo puro, capace di rispettare il significato sponsale del corpo: «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio… Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda ad una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5,21-22.27-28). È Gesù stesso il «compimento» vivo della Legge in quanto egli ne realizza il significato autentico con il dono totale di sé: diventa Lui stesso Legge vivente e personale, che invita alla sua sequela, dà mediante lo Spirito la grazia di condividere la sua stessa vita e il suo stesso amore e offre l’energia per testimoniarlo nelle scelte e nelle opere (cf Gv 13,34-35)» (Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, 15).

«Gesù mostra cosa vuol dire portare a compimento la legge: cogliere in essa il pensiero e il cuore stesso di Dio. La giustizia, pertanto, non consiste in un egualitarismo esteriore, peraltro impossibile, ma nell’amore senza limiti che Dio ha per i suoi figli. Aggiunge, infatti, con una severa ammonizione: «Se la vostra giustizia non sorpasserà quella degli scribi e farisei, non entrerete nel regno dei cieli». A esser buoni alla pari dei farisei, vuol dire Gesù, vale lo stesso che esserlo per nulla. E lo spiega. Le parole che seguono nessuno ha mai osato dirle come le ha dette Gesù e nessuno le ha udite da altro luogo se non dal Vangelo. Il primo tema è tratto dal quinto comandamento: «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai…io, invece, vi dico: chiunque s’adira con il suo fratello sarà sottoposto al giudizio». Gesù non propone una nuova casistica (con l’aggiunta delle altre due scansioni: chi dice stupido e pazzo al proprio fratello), o una nuova prassi giuridica, bensì un nuovo modo di intendere i rapporti tra gli uomini. Gesù afferma che l’amore è il compimento della legge. Occorre, quindi, passare da un precetto in negativo alla positività dell’amicizia. L’amore ha un valore così alto da richiedere, se manca, l’interruzione dell’atto supremo del culto. La misericordia vale più del sacrificio; il culto, come relazione con Dio, non può prescindere da un rapporto d’amore con gli uomini» (Vincenzo Paglia, 10-3-2006).

Proviamo a capire il pensiero di Gesù quando sollecita i suoi seguaci a non opporsi al malvagio. Egli non predica la totale remissività di fronte al male, permettendo a chi lo compie di fare quel che vuole e rimanere impunito, ma condanna una resistenza e una lotta contro di esso nella forma di vendetta, quando si è colpiti personalmente. Sotto accusa, quindi, è la vendetta non la giusta repressione del male, che va perseguita per impedire che esso dilaghi nel mondo. Gesù qui usa uno stile paradossale: porgere l’altra guancia, lasciare tunica e mantello, fare due miglia con chi ti costringe a farne uno solo. E’ chiaro che non sono suggerimenti pratici su come combattere il male; essi servono solo per illustrare il comportamento nuovo del discepolo, totalmente differente da quello prescritto dalla legge del taglione (Es 21, 25): Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al maligno. La conclusione ci immette nella visione amorevole di una vera condivisione con chi ci sta accanto: Da’ a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle. E’ la stessa compassione di Gesù, che, per sconfiggere il male, lo ha assunto. La vendetta personale non fa che accrescere il male; solo attraverso l’amore si possono costruisce relazioni umane che creano le premesse per un vivere sereno e pacifico. E l’amore ha anche il volto della compassione e del perdono verso chi intende ravvedersi.

 

 

Il discorso della montagna continua affrontando il tema della giustizia di Dio. L’antica legge del taglione, che pure cercava di regolare la vendetta perché non fosse illimitata e implacabile, viene cancellata da Gesù. Il suo intento è sconfiggere in radice la vendetta e scongiurare l’inarrestabile spirale di violenza. Il male, infatti, mantiene tutta la sua forza, anche se lo si distribuisce equamente. L’unico modo per sconfiggerlo è eliminarlo in radice. La via del superamento proposta da Gesù è quella di un amore sovrabbondante. Il male non si vince con altro male, ma con il bene. Tutto, insomma, viene capovolto: il discepolo non solo bandisce la vendetta dal suo comportamento, ma deve porgere l’altra guancia. Non è ovviamente una nuova regola, né tantomeno un atteggiamento masochista. È piuttosto un nuovo modo di vivere tutto centrato sull’amore. È l’amore che rinnova il cuore e che rende nuova la vita. Se uno ama offre anche il mantello a chi glielo chiede ed è pronto a compiere anche il doppio dei chilometri a chi gli domanda compagnia.

 

 

«Gesù ci pone davanti a due possibilità: vendicarsi o perdonare. Se dovessimo seguire una strada più comoda e apparentemente più giusta, la vendetta sembra essere la soluzione migliore. Ricambiare il torto subìto diventa la scelta più appagante per se stessi, provoca una soddisfazione immediata. E poi? Nient’altro! Tutto si chiude senza altre prospettive. Ricambiare il torto subito non cambia né me, né l’altra persona. Ecco perché Gesù chiede di andare oltre la giustizia mondana e propone come altra possibile soluzione il perdono. Rispondere male per male non è mai la soluzione migliore perché non porta a nulla di nuovo e non ripara assolutamente nulla. Non si tratta di mostrare la propria debolezza o di arrendersi a chi ha iniziato per primo. Non si tratta di far finta di dimenticare o mettere una pietra sopra. Non si tratta, neppure, di resistere o cercare di far finta di essere più forti dell’altro. Perdonare è confidare completamente nel Padre. Perdonare è riconoscere nell’altro un proprio fratello, figlio dello stesso Padre. Perdonare è dare all’altro una possibilità nuova. Il perdono ci fa guardare avanti perché non ci fa essere ripiegati su noi stessi, ma ci parla di futuro. Solo l’amore e il perdono sono in grado di cambiare persone e situazioni, ci donano la possibilità di respirare freschezza e profumare di gioia la vita. “Porgere la guancia”, “dare il mantello”, “accompagnare”, “prestare”: sono tutte espressioni che dicono l’aiuto che possiamo dare ai nostri fratelli che compiono del male nei nostri confronti o negli altri, espressioni che allungano il passo in avanti, che portano la vita nel domani, liberandolo dalle catene di ieri» (Riccardo Taccardi, La forza dell’amore, in Messa meditazione 2023, maggio-giugno, pp. 396-397).

 

Mi fermo a suggerire qualche riflessione su ciò che precede e segue la preghiera del Padre nostro, illustrando tre condizioni indicate indirettamente da Gesù per una buona preghiera. La prima condizione è che la preghiera ben fatta non si misura dalla quantità di parole usate, ma dalla capacità di entrare in comunione con Dio, ritirati nel segreto del nostro cuore. Ecco il senso dell’entrare in camera e chiudersi. Vivendo l’intimità con Dio ci si apre a lui e ci si pone nella condizione di essere da lui ascoltati. L’altra condizione è la riconciliazione con i fratelli. Se non si riesce a perdonare, ma ci si chiude nel rancore e nel desiderio di vendetta, pregare sarà difficile sia perché Dio rifiuta una preghiera fatta con il cuore traboccante di odio, sia perché l’agitazione interiore, provocata dall’odio e dal rancore, toglie all’uomo la serenità necessaria per entrare in comunione con Dio. La terza condizione è quella di essere respinti da Dio, così come noi respingiamo i fratelli. In nessun altro testo del vangelo Gesù dice che il comportamento di Dio sarà conseguente a quello dell’uomo: Se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre celeste perdonerà anche a voi. Dio agirà con noi come noi agiamo con i fratelli.

 

 

«Il Padre nostro occupa il centro del discorso della montagna, quasi a darci «la sintesi di tutto il Vangelo» (Tertulliano). La prima parola è abbà (papà). Gesù compie una vera e propria rivoluzione religiosa rispetto alla tradizione ebraica di non nominare neppure il nome santo di Dio, e con questa preghiera ci coinvolge nella sua stessa intimità con il Padre. Non è che abbassa Dio; piuttosto siamo noi innalzati a Dio che sta nei cieli. Egli resta il totalmente altro che tuttavia ci abbraccia. È giusto fare la Sua volontà e chiedere che venga presto il regno, ossia il tempo definitivo nel quale sarà finalmente riconosciuta la santità di Dio. La seconda parte della preghiera riguarda la vita quotidiana. Gesù esorta a chiedere il pane, quello di ogni giorno, per farci toccare con mano la concretezza dell’amore di Dio. E poi pone sulle nostre labbra una grave richiesta: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Appare duro e irrealistico ammettere che il perdono umano sia modello (così come noi…) di quello divino, ma nei versetti seguenti questa petizione trova una spiegazione: Se avrete rimesso agli uomini le loro mancanze, rimetterà anche a voi il Padre che è nei cieli. Qualora non rimetterete agli uomini, neppure il Padre vostro che è nei cieli rimetterà le vostre mancanze. Questo linguaggio è incomprensibile per una società, come la nostra, nella quale il perdono è davvero raro. Ma forse proprio per questo abbiamo ancor più bisogno di imparare a pregare con il Padre nostro» (Vincenzo Paglia 7-3-2006).

 

 

«Il problema non è l’esubero di parole, ma la fede mal posta nella persuasione come luogo d’incontro con l’altro.

La preghiera ci è offerta come scuola di ascesi, per purificare il cuore dalle inutili passioni, essa deve anche donarci l’esperienza del riposo interiore, immergendoci nella verità del nostro battesimo, per mezzo del quale ormai figli nel Figlio, possiamo gridare Abbà! Padre! Purificare la preghiera dagli eccessi verbali è scuola di pazienza e di umiltà. Ci educa a credere che molta della felicità che andiamo cercando, in realtà, ci stia già aspettando da qualche parte. Se ne avvertiamo la mancanza, forse è solo perché le nostre vie sono ancora troppo lontane da quelle in cui Dio desidera farci camminare. Pregare il Padre con poche parole significa imparare a rimanere docilmente davanti alla sua volontà, nell’attesa che diventi presto anche la nostra. Nella fiducia che i nostri desideri verranno ascoltati non a forza di parole, ma con parole forti di speranza. Quelle che seppelliscono incubi e paure, ma tengono accesa la fiamma di una viva speranza. E ci fanno addormentare sempre, nell’amore con cui siamo gratuitamente amati» (ROBERTO PASOLINI, Addormentarsi, in Messa e preghiera quotidiana, giugno 2016, pp. 220-221).

L’espressione di Gesù è perentoria: Dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore. Se cerchiamo Dio, tutta la nostra vita sarà orientata verso di lui e perciò aperta al bene. Se cerchiamo il mondo noi uniformeremo la nostra vita alla logica del mondo e sarà difficile, o addirittura impossibile, raggiungere il bene ed essere felici. Gesù si riferisce alla felicità con una similitudine, verificabile per lo più da tutti: la lucerna del corpo è l’occhio. La nostra interiorità è leggibile sul nostro volto, proprio attraverso i nostri occhi. Un cuore puro si rivela agli altri attraverso occhi limpidi e illuminati. Nella storia della spiritualità cristiana l’insegnamento del Signore a guardare verso il cielo dove i tesori sono più sicuri e non esposti al deperimento e ai furti, è stato sintetizzato in una espressione, diventata comune: vivere sub specie aeternitatis. La vita, cioè, deve essere vissuta guardando verso l’eternità, perché le cose terrene cambiano di significato e di valore se le guardiamo a partire dall’eternità o tristemente chiusi nell’orizzonte cieco del tempo. Chi crede e vive sognando l’eternità futura in comunione con Dio, si lascerà guidare nelle scelte della vita dai grandi valori che trovano significato solo a partire dalla promessa dell’eternità, come ci ha insegnato Gesù nel discorso della montagna.

 

 

Gesù esorta i discepoli a digiunare dalle cose del mondo. È un insegnamento di grande saggezza, soprattutto in una società ricca e opulenta come la nostra. Abbiamo bisogno di liberarci dalla schiavitù del possesso e del consumo. Il digiuno, prima di essere una pratica esteriore, è un atteggiamento del cuore, un modo di porsi di fronte alla vita. Il vero tesoro – continua Gesù – è là dov’è diretto il cuore. Digiunare dalle cose del mondo non solo libera dalla schiavitù consumista ma rende capaci di accumulare tesori nel cielo. E il cielo è la vita con il Signore, con i fratelli e con i poveri. Chi spende così la propria vita accumula tesori che non gli saranno rubati dai ladri di questo mondo; al contrario, frutteranno abbondantemente in amore e in bontà. Avere l’occhio chiaro significa avere attenzione e preoccupazione al vero tesoro della vita che è appunto l’amore per il Signore e per gli altri. Chi vive ripiegato su se stesso si autocondanna a passare le sue giornate senza luce, chiuso nel proprio piccolo e triste orizzonte» (Vincenzo Paglia 22-6-2007).

 

 

«In Brasile circola un aneddoto a proposito di un certo Mataraso (un uomo ricchissimo, oltre ogni immaginazione) che arriva alle porte del cielo. Egli vuole entrare, beninteso, subito come in ogni altro luogo. San Pietro non trova obiezioni, ma gli chiede il suo biglietto d’ingresso, che costa soltanto mille lire. Mataraso scoppia a ridere: “Andiamo, san Pietro, voi scherzate! Mille lire? Ma prendete tutta la mia fortuna. Prendete le mie fabbriche, i miei alberghi, i miei castelli, i miei conti in banca, le mie azioni in borsa, i miei lingotti d’oro, le mie automobili, le mie aziende… Io non ne ho più bisogno. Prendetele e lasciatemi entrare”. San Pietro, per nulla impressionato, ribatte: “Neanch’io ne ho bisogno. Ti chiedo mille lire, non di più”. Mataraso gira e rigira le sue tasche… Invano. Deve fare dietro front. Così un proverbio dice: Mataraso non è potuto entrare in cielo, per colpa di mille lire”. Io non so se gli eredi di Mataraso lo ricordino con emozione, o se pensino di far dire una messa per il riposo della sua anima. Non sappiamo nulla di lui, a parte il fatto che era immensamente ricco. Ma noi tutti conosciamo uomini e donne che non possedevano nulla, ma ci hanno lasciato un’eredità spirituale estremamente arricchente. Penso a san Francesco d’Assisi, così invaghito di madonna povertà, a santa Teresa, a san Francesco di Sales, a san Louis Grignion de Montfort, a sant’Ignazio di Loyola, a san Domenico, a sant’Agostino, a sant’Antonio abate e a sant’Antonio di Padova, che trascinano tante persone a dedicarsi a Dio e al proprio prossimo. Questi poveri hanno saputo scoprire il vero tesoro, imperituro, inestimabile, che hanno diviso e continuano a dividere con tutti coloro che ripongono la propria fiducia e la propria ricchezza in Dio. Cosa sarebbe il mondo senza questi giganti della fede?» (Sito laChiesa.it 22-6-2018).

 

«Gesù, dopo averci donato il Padre nostro, torna ad insistere sulla efficacia della preghiera. Ed è molto esplicito: «Chiedete e vi sarà dato», ossia non bisogna avere dubbi circa l’esaudimento della preghiera. Del resto, come può un padre essere sordo all’invocazione dei figli? E Gesù insiste per allontanare dalla mente dei discepoli ogni minima incertezza: «Chiunque chiede ottiene e chi cerca trova». Questa convinzione però non si basa sulla qualità della nostra preghiera (ovviamente necessaria), bensì nella bontà e nella misericordia senza limiti di Dio. Gesù continua a presentare Dio come un padre affettuoso che, ovviamente, non può che dare cose buone ai suoi figli: se i padri della terra non danno pietre al posto del pane, quanto più il Padre celeste – davvero buono! – curerà e proteggerà i suoi figli! Il brano si chiude con una norma – chiamata regola d’oro – presente anche in altre tradizioni religiose: «Tutto quanto volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro».

Queste parole, vissute da Gesù, acquistano la novità di un amore che non ha nessun limite: egli ci ha donato il suo amore senza pretendere alcun contraccambio da parte nostra» (Vincenzo Paglia, 26/06/2007).

 

 

 

Il brano del Vangelo contiene tre diversi insegnamenti. Mi fermo ad illustrare l’ultimo: Entrate per la porta stretta. Il tema delle due vie ritorna più volte nella Bibbia: una porta verso il bene e l’altra verso il male. La scelta di percorrere l’una o l’altra dipende da noi, dalle scelte che facciamo, dagli obiettivi che noi ci prefiggiamo, dai valori in cui crediamo. Spesso siamo ingannati da falsi valori e allora sperimentiamo la caduta e l’infelicità. Gesù ci dice che la porta di accesso al cammino verso il bene è stretta, e il cammino stesso è angusto. Stretto e angusto sono forse sinonimi di tristezza ed infelicità? No. Gesù ci dice solamente che tendere al bene e conquistarlo comporta sacrifici, perché il bene oggettivo, quello che realizza veramente la nostra felicità, non sempre è in sintonia con le nostre inclinazioni. Il peccato originale ha messo in noi una inclinazione al male per cui esso ci appare allettante e desiderabile. Anche Eva vide che i frutti dell’albero erano buoni (Gn 3, 7) e ne mangiò, procurando tutto il male dell’uomo. Per dominare questa tendenza dobbiamo lottare: ecco il senso della porta stretta e della strada angusta. Ma alla fine troviamo la felicità, non solo nel cielo ma anche sulla terra.

Ci viene proposto un altro miracolo e ancora una volta dobbiamo rilevare in esso la finalità pedagogica da parte di Gesù nel compierlo. Sembra che egli non risponda alla domanda del paralitico che gli chiede di camminare, perché parte col dire che gli sono rimessi i peccati; ma lo fa sia perché la mentalità del tempo collegava la malattia del corpo al peccato, sia perché vuole affermare la priorità della salute dell’anima su quella del corpo: la prima malattia non si riesce a vederla, quella del corpo invece è più rilevabile, ma forse meno grave: Cosa è più facile dire: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati e cammina? Ma c’è un altro aspetto che va sottolineato. Gli scribi accusano Gesù di bestemmiare, perché egli si arroga un potere, quello di rimettere i peccati, che appartiene solo a Dio. Gesù accetta questa precisazione, però ribadisce di avere anche lui questo potere. Egli, perciò, indirettamente afferma la sua origine divina. Ed è in questo contesto e per sottolineare la verità del suo insegnamento che compie il miracolo richiesto: Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere in terra di rimettere i peccati: alzato, disse al paralitico, prendi il tuo letto e va’ a casa tua. Ancora una volta dobbiamo guardare ai miracoli non nell’ottica utilitaristica di vedere risolti i nostri problemi materiali, ma nell’ottica di una rivelazione della potenza e gloria di Dio, che deve accrescere la nostra fede.

 

 

 

«Gesù sembra fare la spola da una riva all’altra per accorrere là dove c’è bisogno. Tornato a Cafarnao gli portano un paralitico steso su un lettuccio, e lo pongono al centro. Un centro non solo fisico, ma di attenzione, di interesse, di preoccupazione per quel malato prima che per se stessi. L’amore di quegli amici è in certo modo l’inizio del miracolo. L’evangelista invita a notarlo affermando che Gesù, vedendo la loro fede, si decide ad intervenire. Questa volta, però, prima di operare la guarigione, dice al paralitico parole che nessuno ha mai detto: «Sono rimessi i tuoi peccati!». Gesù non vuole insinuare che la malattia del paralitico sia stata causata dai suoi peccati. Vuol mostrare piuttosto un fatto ben più importante: il suo potere si estende anche sui peccati, per cancellarli. E qui la scena, comprensibilmente, si trasforma in un dibattito teologico. Gli scribi presenti, al sentire queste parole, pensano male di Gesù, senza dirlo. Ma Gesù, che vede nei cuori, li smaschera e fa vedere fin dove arriva la sua misericordia: «Alzati! – dice al paralitico – prendi il tuo letto e va’ a casa tua». Il Signore ha compiuto in quel malato un doppio miracolo: lo ha perdonato dai peccati e lo ha guarito dalla paralisi. È venuto tra gli uomini uno che guarisce sia il corpo che il cuore. Ne abbiamo bisogno anche noi, subito» (VINCENZO PAGLIA, 5-7-2007)

«Gesù camminando vede Matteo, uno degli esattori incaricato di raccogliere le tasse che vanno a impinguare le casse del tetrarca o del governatore della regione. È l’autore del Vangelo che ci sta accompagnando in questo anno liturgico. Come esattore, appartiene alla odiata classe dei pubblicani, ritenuti imbroglioni e sfruttatori della gente e della legge. Per di più sono considerati impuri, perché maneggiano denari e compiono loschi affari pecuniari. Insomma, è gente da evitare. Accomunati agli scomunicati, ai ladri e agli strozzini, non sono neppure da salutare. Gesù, invece, si avvicina e si mette a parlare con lui. Al termine gli rivolge persino un invito: “Seguimi”. Un pubblicano è chiamato a far parte dei discepoli. Altro che non avvicinarsi e non dar neppure la mano! Matteo, a differenza di tanti uomini che si ritenevano religiosi e puri, subito si alza dal suo banco e si mette a seguire Gesù. Da peccatore che era diviene un esempio di come si segue il Signore. Anzi, ancor di più, con il Vangelo che porta il suo nome è divenuto guida di tanti. Anche noi seguiamo questo antico pubblicano e peccatore che ci conduce verso la conoscenza e l’amore del Signore Gesù. Matteo invita subito Gesù ad un banchetto. Vi accorrono anche i suoi amici. È uno strano banchetto; composto, appunto, da pubblicani e peccatori. Ma Gesù non si vergogna di stare con loro. Alcuni farisei, scandalizzati da questa scena, dicono ai discepoli: “Perché il vostro maestro mangia cori i pubblicani e i peccatori?”, Gesù sente l’obiezione e interviene direttamente nella polemica con un proverbio inconfutabile per la sua chiarezza: «Non hanno bisogno del medico i sani, ma i malati». Gesù non vuol dire che i farisei sono sani e gli altri malati. Per lui, infatti, non c’è mai sulla terra un divisione manichea tra gente buona e gente cattiva, tra giusti e peccatori. Gesù vuol solo spiegare qual è la sua missione: egli è venuto per aiutare e per guarire, per liberare e per salvare. Non è sceso dal cielo per comminare condanne e punizioni. Per questo, rivolgendosi direttamente ai farisei, aggiunge: “Andate e imparate che cosa vuoi dire: Misericordia cerco non sacrificio”. E invita tutti a essere come lui: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore (Mt 11,29). E, avvicinandosi ancora di più a ognuno di noi, aggiunge: “Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”. Per questo non è difficile sentire il Signore accanto a sé» (Vincenzo Paglia, 6-7-2007).


Per ulteriore apprendimento è bene visitare la pagina dedicata a san Matteo (21 settembre).

Il brano ci presenta la guarigione dell’emorroissa e la risurrezione della figlia di un capo della sinagoga. Entrambi hanno alla base una fede forte. Il capo della sinagoga è deciso e sicuro di quello che dice: «Vieni, imponi la tua mano sopra di lei ed essa vivrà». L’emorroissa pensava: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita». È questa fede che Gesù premia in entrambi. Perciò la donna guarisce e la ragazza è restituita in vita ai genitori. Quando Gesù ci ha esortato alla preghiera ha preteso da parte nostra una fede forte: «Se avrete fede pari a un granellino di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà» (Mt 17, 20). Questo tipo di fede nasce dal rapporto di padre a figlio e dalla fiducia che noi coltiviamo verso di lui. Gesù, infatti, quando ha parlato della fiducia che dobbiamo riporre nella preghiera si appella a questo tipo di rapporto: «Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano» (Mt 7, 7-11). La preghiera del Padre nostro, insegnataci da Gesù, ci immette in questo tipo di rapporto con Dio. Sappiamo recitarla ogni volta con la consapevolezza di dialogare con un Padre, che ci ama.

 

 

«Gesù si trova ancora in casa di Matteo per la festa con i peccatori ed ha appena detto che è venuto per i malati. In quel momento giunge, straziato dal dolore, un capo della sinagoga a cui è appena morta la figlia. Gli si prostra davanti e lo supplica: «Mia figlia è morta or ora; ma vieni, poni la tua mano su di essa e vivrà». Molto probabilmente conosce bene Gesù per averlo visto frequentare la sinagoga e magari lo ha anche invitato qualche volta a prendere la parola. Senza dubbio è venuto a conoscenza della bontà e della straordinaria misericordia di questo giovane profeta. È comunque l’unica speranza rimastagli per riavere la figlia. Come non vedere in lui lo strazio di tanti genitori di fronte alla morte dei propri figli? Nella sua preghiera ci sono tante preghiere disperate per la perdita prematura di quello che ci sono più cari. Gesù subito si alza e si incammina. Giunto nella casa del capo della sinagoga prende per mano la bambina e la sveglia dal sonno della morte, riconsegnandola alla vita. Sono tanti i giovani e i bambini che attendono di essere presi per mano ed essere ridati alla vita!

E non siamo forse noi le mani del Signore? Durante il tragitto – Gesù non cammina mai senza lasciare traccia – una donna che da dodici anni soffre di un’emorragia, pensa sia sufficiente toccare anche solo il lembo del mantello di Gesù per essere guarita. Una fiducia semplice che si esprime in un gesto apparentemente ancora più semplice, per di più fatto nascostamente. Gesù se ne accorge, la vede e le dice: «Coraggio, figliola: la tua fede ti ha salvata». Matteo fa notare che è la parola di Gesù unita alla fede di quella povera donna ad operare la guarigione: c’è bisogno di un rapporto personale tra quella donna e Gesù, tra noi e Gesù. Non siamo nel campo della magia, bensì in quello del rapporto di affetto e di fiducia con Gesù. E, inoltre, mi chiedo, non è il discepolo, non è la comunità cristiana, il lembo del mantello di Gesù per i tanti che cercano consolazione e salvezza?» (Vincenzo Paglia, 9-7-2007).

Gesù, attraverso una serie di affermazioni forti e decise, pur correndo il rischio di essere frainteso, afferma il primato della sequela da parte del discepolo su ogni altro valore ed affetto: Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me… Scegliere di seguire Gesù e sforzarsi di essere decisi e coerenti in ciò che tale scelta comporta, significa inevitabilmente creare separazioni e fratture, perché quanto Gesù insegna non sempre è accettato da tutti, perché spesso contrasta con il comune sentire degli uomini. Ecco il significato dell’affermazione: Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Ma queste separazioni o lotte possono essere superate quando si comprende che i valori annunciati da lui sono quelli che alla fine danno la pace vera, nonostante si esiga sacrificio per conseguirli. Ecco così spiegata anche l’altra espressione, che sembrerebbe offrire una dimensione triste al Vangelo: Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Gesù non ci condanna alla sofferenza e alla tristezza, ma ci dice solo che la conquista dei valori del Vangelo comporta alcuni sacrifici, che dobbiamo essere disposti a fare. Nel cercare il bene si può momentaneamente avere la sensazione di essere perdenti, ma alla fine ci si accorge che si è conquistata la vera dimensione della vita. Guardiamo attraverso questa luce la vita dei santi e ci accorgiamo il significato del loro soffrire per la causa del Vangelo.

 

«Gesù chiede ai discepoli un amore così radicale da superare anche quello per i familiari. Solo chi ha questo amore è degno del Signore. Per tre volte in poche righe si ripete: essere degni di me; un’insistenza che contrasta con le parole del centurione che ripetiamo in ogni celebrazione eucaristica: «O Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto». In effetti, chi può dirsi degno di accogliere il Signore? Basta uno sguardo realistico alla vita di ciascuno di noi per renderci conto della nostra pochezza e del nostro peccato. Essere discepoli di Gesù non è né facile, né scontato, e non è frutto di nascita o di tradizione. Si è cristiani solo per scelta, non per nascita. E il Vangelo ci dice di quale altezza è tale scelta. I discepoli di Gesù sono coloro che condividono senza riserve la sua persona e il suo destino, sino a identificarsi con lui. In tal senso il discepolo trova se stesso trovando Gesù.

È questo il senso delle parole che seguono: «Chi avrà trovato la sua vita la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia la troverà». È una delle frasi di Gesù più tramandate (ben sei volte è presente nei Vangeli). Ovviamente la prima comunità cristiana ne aveva compreso l’importanza e la vedeva realizzata anzitutto in Gesù stesso. Egli ha ritrovato la sua vita (nella resurrezione) perdendola (ossia, spendendola sino alla morte) per l’annuncio del Vangelo. È esattamente l’opposto della concezione normale della gente che crede di essere felice quando trattiene per sé la propria vita, il proprio tempo, le proprie ricchezze, i propri interessi; ma sappiamo i guasti che produce il sentimento di conservazione di se stessi e dei propri interessi a qualsiasi costo. Il discepolo, al contrario, trova la sua felicità nello spendere la propria vita per il Signore e per i poveri, nella rinuncia a conservare se stesso per darsi tutto al Signore.

Il manuale dei discepoli in missione – così possiamo definire il capitolo decimo di Matteo – viene chiuso dall’evangelista con alcune note sull’accoglienza loro riservata. È naturale che l’inviato si aspetti di essere accolto da coloro ai quali è mandato. Gesù stesso se lo augura e ne sottolinea la ragione di fondo: «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato». In questo versetto si condensa il perché della dignità del discepolo: la totale dipendenza dal Signore, al punto che la loro presenza significa quella di Gesù stesso. È ovvio che si tratta di accogliere il discepolo come profeta, ossia come colui che porta il Vangelo, che non annuncia la propria parola ma la Parola di Dio. E la ricezione della Parola è la ricompensa che il Signore promette a coloro che accolgono i suoi discepoli. Gesù li chiama anche piccoli: il discepolo, infatti, non possiede né oro né argento, non ha bisaccia e neppure due tuniche, e deve camminare senza portarsi né sandali né bastone (Mt 10,9-10). L’unica sua ricchezza è il Vangelo, di fronte al quale anche lui è piccolo e totalmente dipendente. Questa ricchezza dobbiamo accogliere; questa ricchezza dobbiamo trasmettere» (Vincenzo Paglia, 16-7-2007, in lachiesa.it).

«Chi ha orecchi, intenda». È un monito severo che interpella i discepoli di tutti i tempi. La fede è apertura a Dio e accoglienza della sua parola, la quale è seminata nel cuore di tutti gli uomini ai quali giunge l’annuncio. Bisogna creare le condizioni perché la parola porti frutto. Ecco l’impegno a dissodare il terreno e renderlo idoneo ad accogliere il seme. Il Signore non ci salva ad ogni costo; così come non ci garantisce automaticamente i beni che egli ha promesso a quanti lo ascoltano. Tutto dipende dal modo come si accoglie la sua parola. Il richiamo di Giovanni Battista alla conversione, rivolto alla gente alla vigilia dell’inizio della vita pubblica di Gesù, mirava proprio a creare le condizioni per accogliere la predicazione del Vangelo: «I passi tortuosi siano diritti; i luoghi impervi spianati» (Lc 3, 5). La conversione è la parte che l’uomo deve fare perché si compiano le promesse del Signore; e ciò sia a livello personale che collettivo, nel senso che la Parola di Dio ha la capacità di trasformare l’uomo non solo individualmente, ma anche nella realtà della sua vita associata. Il Vangelo ha la forza di cambiare anche le istituzioni dell’uomo e garantire felicità, benessere, pace. È questa certezza che spinge i credenti a non chiudere l’esperienza religiosa ad un fatto privato, ma ad immettere i propri valori lì dove si decide della cultura, delle istituzioni, degli ordinamenti degli Stati. Con coraggio e decisione, senza farsi intimorire da nessuno. Da qui l’impegno sociale e politico dei credenti in ogni settore della vita.

«Rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua». Tre verbi, l’uno in successione dell’altro, e ciascuno in conseguenza di ciò che precede. Non sono tre azioni distinte, ma un insieme inscindibile, una specie di «cascata» di atti consequenziali che sfociano nella sequela di Gesù, l’identificano e le danno consistenza. Rinnegare se stessi! Cosa sarebbe, se non tenere libere le mani e allenarle perché possano afferrare la croce? Prendere la croce: non sarebbe inutile autolesionismo, se non fosse andare dietro a Gesù? Non si prende la croce per iniziativa, ma per imitazione. Seguire Gesù non è qualcosa di esteriore, ma una scelta anzitutto d’interiorità. È alla luce e nella prospettiva di Gesù che queste tre condizioni di sequela vanno intese. Tutte e tre, insomma, «fondano» il discepolato cristiano, gli offrono il terreno perché possa vivere e crescere. Ciò detto, ciascuna di esse va andrebbe ulteriormente analizzata. Il rinnegarsi, infatti, acquista consistenza se diventa imitazione di Gesù, che ha vissuto la sua vicenda terrena in condizione di pro-esistenza, ossia di esistenza per gli altri. Perdere la vita non è un incoraggiamento a disprezzarla, bensì a valorizzarla appieno mettendola in gioco per Cristo. In fondo vivere di fede è proprio questo.

Alcuni commenti

«Difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli». La questione è stata posta sin dal principio. Il problema reale, tuttavia, non è quale sia il destino di chi è ricco, ma piuttosto quale pericolo significhi per l’uomo la ricchezza in ordine alla salvezza. Il detto proverbiale sul cammello e l’ago esprime la serietà del problema. I discepoli si sentono anche loro a rischio: «Allora, chi può essere salvato?». L’idea è che avendo a disposizione le ricchezze è possibile risolvere molti nodi della vita: cosa non si può fare col denaro? Non dice, forse, la Legge che i beni terreni sono un segno della benedizione del Signore (cfr Dt 28,1-14)? Ed allora cosa ne sarà dei poveri? La risposta di Gesù non condanna le ricchezze, ma dice chiaramente due cose. Anzitutto che il ricco non si salva per la sua ricchezza; in secondo luogo che la ricchezza diventa facilmente un gradino per la chiusura del cuore (cfr 1Tim 6,17: «A quelli che sono ricchi in questo mondo ordina di non essere orgogliosi, di non porre la speranza nell’instabilità delle ricchezze, ma in Dio»). Il modo per entrare nella salvezza non sta nell’avere, ma nel distaccarsene per donare e per seguire Gesù.

Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?
Per chi segue, senza limite alcuno, l’obbedienza soprannaturale, la terra è già un paradiso. Quanta pace e felicità autentica infonde in un religioso la consapevolezza di compiere in modo certo la volontà di Dio, di essere sicuramente uno strumento nella mano dell’Immacolata.
Un mezzo di capitale importanza per mantenere la pace consiste nel contemplare ogni cosa alla luce della fede, nel vedere Gesù in tutto. A quale scopo viviamo sulla terra? Il cuore dell’uomo è inquieto finché non riposa in Te, o Dio – confessa s. Agostino, dopo aver ricercato a lungo e inutilmente la felicità fuori di Dio. Proviamo tutti, per esperienza personale, che non ci può bastare alcunché di limitato.  Dio soltanto quindi può essere il nostro fine.
La sorgente della felicità e della pace non sta fuori, ma dentro di noi. Sappiamo trarre profitto da ogni cosa per esercitare la nostra anima alla pazienza, all’umiltà, all’obbedienza, alla povertà e alle altre virtù della vita religiosa, e le croci non saranno più tanto pesanti. Del resto noi proclamiamo che attraverso l’Immacolata possiamo tutto: dimostriamolo quindi con l’azione, poniamo in lei la nostra fiducia e andiamo avanti nella vita con tranquillità e serenità.
San Massimiliano Kolbe, Scritti.

«Gli operai nella vigna (Mt 20,1-16)

Lavoratori per la sua vigna
Per operaio si intende colui che lavora, che opera. Il primo e più grande operaio è, secondo san Giovanni Crisostomo, Dio stesso, che ha creato il cielo e la terra, un’opera grande e meravigliosa. Crisostomo la paragona ad una tavola imbandita pronta per l’invitato, l’uomo. Più tardi però corresse un po’ questa immagine. La festa sarà alla fine dei secoli; per adesso l’uomo non è ancora un convitato, ma un collaboratore. L’opera della creazione non è ancora finita, perché Dio ha voluto dare all’uomo il grande privilegio di completare l’opera iniziata dal supremo Artista.
Non sono molti i maestri che hanno una così grande fiducia nei loro discepoli da lasciare che terminino la loro opera. Invece con fiducia Dio affida all’uomo il suo lavoro, crede in lui e non lo abbandona, lo accompagna con la sua mano. L’uomo quindi è un operaio al servizio di Dio, sotto la guida di Cristo. La sua opera è creativa se si attiene fedelmente al primo progetto tracciato da Dio. La volontà di Dio è la prima regola della nostra azione.

Un lavoro ineguale
La volontà di Dio non è un principio astratto. Con una libera decisione, Dio affida concretamente a ciascuno il suo compito. Nessuno riceve lo stesso compito, perciò ogni vocazione è particolare e irripetibile. Nessuno riceve lo stesso tempo: Dio dà a ciascuno un tempo diverso per portare a termine la propria opera. Perciò c’è tanta differenza nei talenti personali, e di conseguenza anche nei tipi di lavoro. Alcuni Padri della Chiesa sostenevano che le differenze sociali sono determinate dal peccato. Purificarsi dal male riporta la perduta uguaglianza, ed è quello che si cerca di fare nei monasteri.
Origene ha persino pensato che un misterioso peccato commesso dall’anima prima della nascita condizioni lo stato fisico, intellettuale, morale e sociale dell’individuo. Ma questa riflessione parte da un falso concetto di uguaglianza, che non può esistere fra gli esseri umani, né in natura e neanche nelle intenzioni della Provvidenza. La madre è giusta quando si comporta in modo diverso con un figlio a seconda se è piccolo o grande, oppure se tratta differentemente un ragazzo e una ragazza. In natura Dio dà agli animali e alle piante tutto il necessario che serve alla loro specie. Con gli uomini agisce giustamente secondo la loro vocazione.

Amico, io non ti faccio torto
Gli operai che hanno cominciato a lavorare dalla mattina mormorano quando vedono che a fine giornata la ricompensa è uguale per tutti. Anche a noi sembra un’ingiustizia: perché dare la stessa paga a chi ha sopportato il caldo e la fatica di un giorno intero e a chi ha lavorato solo poche ore? I Padri hanno una risposta spiritosa a questa domanda. Il denaro qui significa la vita eterna, il regno di Dio. È una ricompensa indivisibile, che non si può concedere parzialmente.
Si può rispondere anche in un altro modo, e cioè senza fare nessuna distinzione fra lavoro e ricompensa: il solo fatto di lavorare nella vigna del Signore è una ricompensa. Da questo punto di vista quelli che hanno lavorato un’intera giornata ricevono più di quelli che hanno lavorato nelle ultime ore. Non è forse un grande privilegio conoscere Cristo già da piccoli ed essere al suo servizio fin da giovani? Per non vantarsi di questo privilegio, il vangelo ci consiglia di stimare anche quelli che arrivano tardi, magari solo nella vecchiaia. Dio ama anche loro e dà anche a loro la possibilità di correggere un passato negligente» (TOMÁŠ ŠPIDLÍK, Il Vangelo di ogni giorno. Riflessioni sul Vangelo feriale. IV. Tempo “per annum” 2, Lipa, Roma 2001, pp. 43-45).

 

SPUNTI RIFLESSIONE ANNO DISPARI

Prima Lettura anno dispari
Vari temi: il frutto, la vita, la vergogna.
Conta che siamo consapevoli che abbiamo bisogno di essere liberati e che la libertà abbia uno scopo ben preciso.

Vangelo
Il fuoco è simbolo di luce, di calore, di purificazione, di Spirito Santo
Unità sì, ma sempre nel Signore. Spesso purtroppo si teme di prendere posizione e di essere divisivi. Noi diciamo no all’indifferenza.
Conta capire cos’è la verità, il primato di Dio anche sulla famiglia. È bene tener conto di Lc 9,57-62.

 

SPUNTI DI RIFLESSIONE ANNO PARI

«Il vangelo di oggi è come un roveto ardente, di fronte al quale conviene togliere subito sia i sandali del timore sia quelli di an facile appropriazione. Le parole con cui Gesù rivela la determinazione del suo cuore, in vista della sua passione d’amore, non possono essere né addomesticate, né troppo facilmente intese: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso” (Lc 12,49). L’immagine del fuoco intercetta immediatamente ciò che in noi è maggiormente irrisolto: la paura di patire ancora l’incapacità di portare avanti i rapporti in cui siamo immersi senza attraversare momenti di sofferenza. Il ricorso a questa bruciante immagine, tuttavia, non sembra avere per il Signore Gesù altro fine se non quello di dichiarare l’intensità del desiderio che abita la sua carne umana e orienta í passi del suo cammino verso Gerusalemme. È lui stesso a stabilire una relazione tra l’impazienza nei confronti dell’incendio che sulla terra è in procinto di scatenarsi e l’angoscia rispetto al mistero di passione, morte e risurrezione che sta per manifestarsi nella sua storia: “Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!” (12,50).
Questa prima parte del vangelo, dove si manifesta in tutta la sua determinazione e la sua intensità “l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza” (Ef 3,19), è una premessa necessaria per capire – senza fraintendere – il successivo inno alla divisione, dove Gesù parla di un bagno di verità attraverso cui ogni legame ingenuo è chiamato a diventare autentico: “Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione” (Lc 12,51). Con questo riferimento a ciò che maggiormente temiamo di sperimentare – ancora nella nostra vita, in realtà ci viene ricordato che l’amore, quando viene da Dio e porta alla comunione, non si propaga meccanicamente, come fa l’incendio in un bosco, perché è un atto di libertà.
Con queste parole il Signore Gesù demolisce l’immagine ingenua di percorsi d’amore troppo scontati e fusionali, per proporre un cammino verso un amore libero, persino da se stesso e da ogni legittima aspettativa. L’amore che sgorga da Dio e si estende, come dono e compito, sulla nostra umanità, non ha paura di accettare il conflitto e la divisione come momenti indispensabili per stabilire legami non fondati sul possesso ma sulla condivisione.
Il suo compimento avviene fuori dagli spazi angusti dell’egoismo, dove l’altro è amato per quanto è capace di offrire, ma dentro quelli della carità che si nutre del desiderio di offrire all’altro il bene e il meglio in vista della sua pienezza di vita.
Una commovente attestazione di questo amore ci è offerta dal cuore di Paolo, cosi liberato da ogni forma di preoccupazione per se stesso da diventare un grembo di amore premuroso e rovente nei confronti di quanti stanno per essere battezzati nell’amore del Risorto: “Fratelli, io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ha origine ogni discendenza in cielo e sulla terra, perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati nell’uomo interiore mediante il suo Spirito” (Ef 3,14-16).
Forse l’intreccio delle letture proposte dalla liturgia di questo giorno ci consegna una bella profezia: solo ginocchia che sanno piegarsi possono sostenere mani capaci di gettare il fuoco dell’amore accettando ogni divisione conseguente. Solo in una vera prossimità all’altro, e a suo bisogno profondo, si può essere felici di poter stare anche in una distanza necessaria a vivere un amore puro e fecondo. Che arde incessantemente. Senza consumare, né consumarsi.
Signore Gesù, la divisione ci spaventa perché abbiamo conosciuto il Divisore, il male che viene a separare, con il dubbio e la contesa, ciò che tu hai unito: donaci il coraggio di attraversare la sofferenza di dividersi da ciò che più amiamo per imparare ad amarlo nella verità e nella libertà. Per questo noi qui, davanti a te, pieghiamo il corpo e il cuore» (ROBERTO PASOLINI, in Messa e preghiera quotidiana, pp. 192-195).

Commento I lettura anno PARI

«Il mare che nella Bibbia è facilmente utilizzato come simbolo della morte e del male, non è più una forza da temere. È diventato un oceano di cristallo in cui non si affonda più e che, anzi, come un gigantesco piedistallo conferisce valore a tutto ciò che accoglie e sostiene. Sopra di esso i servi dell’agnello, cioè i cristiani non piegano le ginocchia davanti a nessuno, perché hanno ormai la forza di stare nella posizione eretta dei risorti.
Nessuno può togliere loro la vita perché hanno scelto di donarla per primi, con una passione incontrata, accolta e, infine scelta. Per questo sono felici di poter affermare, con la propria vita, la vita di un altro – il Signore onnipotente nell’amore – e con lui regnare per sempre: «Grandi e mirabili sono le tue opere, Signore Dio onnipotente; giuste e vere le tue vie, Re delle genti!» (15,3).

Sei tu il nostro mare di cristallo, Signore, tu che hai fatto della fragilità la forza per mostrare che dove finisce la vita inizia l’amore, dove si offre se stessi, fino a morire a se stessi, c’è un Altro che si offre a noi. Fa’ di ogni tuo discepolo un soggetto di passione che con fierezza rinneghi la paura di consegnarsi e di schiudersi a una vita nuova” (ROBERTO PASOLINI, in Messa e preghiera quotidiana, novembre 2016, pp. 228-229)».