Vite dei Santi e dei beati: Fonti per Conoscere, Riflettere e Ispirarsi
Maria Santissima Madre di Dio BENEDETTO XVI, Udienza generale, 2-1-2008.
FRANCESCO, omelia 1-1-2017
– Angelus 1-1-2017
– Omelia 31-12-2018
– Omelia 1-1-2018
– Omelia, 1-1-2019.
– Angelus, 1-1-2019.
– Omelia e Angelus 1-1-2020.
– Omelia 1-1-2022
– CEI, Benedizionale, pp. 19-34.
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– Di Pasqua in Pasqua. Commenti al Vangelo domenicale dell’anno liturgico B, San Paolo, Cinisello Balsamo 2023, pp. 37-38.
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Voce Madre in RYKEN LELAND – WILHOIT JAMES C. – LONGMAN TREMPER III (a cura di), Le immagini bibliche. Simboli, figure retoriche e temi letterari della Bibbia. Dizionari San Paolo, edizione italiana a cura di Marco Zappella, San Paolo, Cinisello Balsamo 2006, pp. 812-814.
voce Maria, la madre di Gesù in RYKEN LELAND – WILHOIT JAMES C. – LONGMAN TREMPER III (a cura di), Le immagini bibliche. Simboli, figure retoriche e temi letterari della Bibbia. Dizionari San Paolo, edizione italiana a cura di Marco Zappella, San Paolo, Cinisello Balsamo 2006, pp. 851-853.
Voce Pace in RYKEN LELAND – WILHOIT JAMES C. – LONGMAN TREMPER III (a cura di), Le immagini bibliche. Simboli, figure retoriche e temi letterari della Bibbia. Dizionari San Paolo, edizione italiana a cura di Marco Zappella, San Paolo, Cinisello Balsamo 2006, pp. 1015-1016.
Voce Tempo in RYKEN LELAND – WILHOIT JAMES C. – LONGMAN TREMPER III (a cura di), Le immagini bibliche. Simboli, figure retoriche e temi letterari della Bibbia. Dizionari San Paolo, edizione italiana a cura di Marco Zappella, San Paolo, Cinisello Balsamo 2006, pp. 1433-1437.
BENEDETTO XVI, Udienza generale, 25 ottobre 2006.
– Udienza generale, 8 novembre 2006
FRANCESCO, omelia 25-1-2014
– Omelia 25-1-2016.
FABRIS RINALDO, Paolo di Tarso, Paoline, Milano 2008, pp. 47-71.
MARTINI CARLO M., Le confessioni di Paolo, Àncora, Milano 1982.
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RAVASI GIANFRANCO, 500 curiosità della fede, Mondadori, Milano 2009, pp. 62-63.
«La festa della conversione di san Paolo ha una doppia motivazione: dedicargli un giorno particolare (dato che il 29 giugno egli è ricordato assieme a san Pietro) e celebrare un avvenimento decisivo per la prima diffusione missionaria del cristianesimo. Infatti, fu nel giorno della sua conversione sulla via di Damasco che Paolo divenne «l’Apostolo delle Genti». Lo rivelò Dio stesso al discepolo Anania, inviato a battezzare Paolo: “Egli è per me uno strumento eletto, per portare il mio Nome davanti ai popoli” (At 9,15). Ed è bello sottolineare che il calendario ricorda oggi anche sant’Anania di Damasco. Ma ascoltiamo il racconto della conversione, dalla stessa bocca di Paolo: «Mentre ero in viaggio e mi avvicinavo a Damasco, verso mezzogiorno, all’improvviso, una gran luce dal cielo rifulse attorno a me; caddi a terra e sentii una voce che mi diceva: “Saulo! Saulo! Perché mi perseguiti?”. Risposi: “Chi sei, o Signore?”. Mi disse: “Io sono Gesù il Nazareno, che tu perseguiti!” (At 23,14-15). Fu nel breve tempo di questo intenso e lacerante dialogo che Paolo dovette piegarsi davanti alla misteriosa “identità” che gli si manifestava: Gesù il Nazareno era sia il Signore, sia “il vero perseguitato”. In quell’attimo Paolo comprese che la vicenda del Nazareno era una forza operante nella storia, una forza vittoriosa su ogni altro potere, una forza di salvezza che la sua Chiesa aveva ereditato per donarla al mondo intero. E si consegnò totalmente a Gesù e alla missione di predicare il Vangelo. “Per me, vivere è Cristo!”, diceva con entusiasmo. E il messaggio che non si stancò mai di ripetere fu questo: “Né morte né vita, né presente né avvenire, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rom 8,31. 39)» (ANTONIO M. SICARI, Conversione di san Paolo. “Vivere è Cristo!” in Avvenire, 25-1-2012).
Avvenire, 25-1-2011, p. 1.
Conversione di san Paolo. Sulla via di Damasco
«Se la memoria della conversione di Paolo è così solenne, questo accade perché è utile a quelli che ne celebrano il ricordo. Come è possibile cedere alla disperazione, per quanto grandi siano le nostre colpe, quando si sente che quel Saulo, che sempre fremente minacciava strage contro i discepoli del Signore, fu all’improvviso trasformato in vaso d’elezione? Chi potrebbe dire: ‘Non posso rialzarmi e condurre una vita migliore?’» (san Bernardo).
La festa veniva già celebrata in Gallia nel VI secolo e a Roma nel secolo IX. Ricorda l’apparizione di Cristo all’ebreo Saulo sulla via di Damasco, dagli Atti degli Apostoli ritenuta talmente importante da essere raccontata tre volte. Altra testimonianza decisiva sono le lettere di Paolo, il quale non si sofferma sui particolari, ma sviluppa teologicamente il nucleo dell’evento rappresentato dall’apparizione irresistibile del Risorto. «Questa svolta della sua vita, questa trasformazione di tutto il suo essere non fu il frutto del suo pensiero, ma dell’incontro con Cristo Gesù» (Benedetto XVI). Per questo Paolo, pur mettendosi all’ultimo posto, può rivendicare pari dignità con gli altri apostoli, che avevano seguito Gesù nella vita terrena. L’apparizione del Signore è accompagnata dal conferimento del battesimo da parte di Anania. Paolo è anzitutto gettato nelle tenebre in sequela di Gesù calato nel sepolcro e disceso agli inferi. Poi, con l’acqua battesimale, recupera la vista, perché il Cristo risorto è la luce della verità, la luce di Dio che dilata l’orizzonte degli uomini. Per questo Paolo è chiamato a portare l’evangelo ai popoli. Israelita di nascita, diveniva l’apostolo delle genti.
BENEDETTO XVI, Udienza generale 13-12-2006.
FRANCESCO, Omelia, 26-1-2015.
– Omelia, 26-1-2018.
RAVASI GIANFRANCO, Lettere a Timoteo e a Tito. Cinque Conferenze al Centro San Fedele. Marzo 1996, su Mp 3, EDB, Bologna 2016.
«I due santi di oggi sono i collaboratori più stretti dell’apostolo Paolo.
Timoteo era nato a Listra da madre giudea e padre pagano. Si era avvicinato alla comunità cristiana e, poiché aveva una buona conoscenza delle Scritture, godeva di grande stima presso i fratelli. Quando, verso l’anno 50, passò da Listra, Paolo lo fece circoncidere per rispetto verso i giudei e lo scelse come compagno di viaggio. Con Paolo Timoteo attraversò l’Asia Minore e raggiunse la Macedonia. Accompagnò poi l’apostolo ad Atene e di lì venne inviato a Tessalonica. Quindi proseguì a sua volta per Corinto e collaborò all’evangelizzazione della città sull’istmo. Tito era di famiglia greca, ancora pagana, e venne convertito dall’apostolo in uno dei suoi viaggi. Egli viene inviato in particolare alla comunità di Corinto con lo scopo di riconciliare i cristiani di quella città con l’apostolo. Quando si reca a Gerusalemme per l’incontro con gli apostoli, Paolo porta con sé Timoteo il circonciso insieme con Tito l’incirconciso. Nei suoi due collaboratori egli riunisce simbolicamente gli uomini della legge e gli uomini dalle genti. Secondo la tradizione Paolo scrisse due lettere a Timoteo e una a Tito quando erano rispettivamente vescovi di Efeso e di Creta. Sono le uniche due lettere del Nuovo Testamento indirizzate non a comunità, ma a persone. L’apostolo, ormai anziano, si lascia finalmente andare ad annotazioni ricche di affetto verso i suoi due discepoli nella fiducia di aver messo nelle giuste mani l’annuncio del Vangelo del Signore. Secondo Benedetto XVI, Timoteo e Tito “ci insegnano a servire il Vangelo con generosità e a essere i primi nelle opere buone”» (Avvenire, 26 gennaio 2011, p. 2).
«Timoteo, abitante di Listra (nel nord dell’attuale Turchia), incontrò l’Apostolo Paolo nell’anno 47 d.C. e si fece suo discepolo, collaborando con lui per vent’anni «nell’opera del Signore». Accompagnò Paolo in Macedonia, poi a Tessalonica, a Corinto e ad Atene. Infine gli fu affidata l’importante comunità di Efeso, di cui fu vescovo. Paolo lo chiamava suo «vero figlio nella fede». A lui sono indirizzate due «lettere pastorali» che Paolo gli scrisse per esortarlo a essere tenace difensore della verità e vero pastore della comunità. Gli raccomandava soprattutto la dolcezza: «Non essere aspro nel riprendere un anziano, ma esortalo come fosse tuo padre; e segui i giovani come fossero tuoi fratelli» (1 Tim 5,1). Timoteo morì ad Efeso, martire durante la persecuzione di Domiziano. Fu sempre molto onorato in tutta la Chiesa. Con lui fu onorato anche Tito, di origine pagana, anch’egli riconosciuto da Paolo come «mio vero figlio nella fede comune». Lo seguì in Epiro e a Roma, poi si stabilì a Creta, dove morì in età avanzatissima. Anche a lui Paolo scrisse una lettera-testamento nella quale traccia il profilo di un vero pastore della Chiesa che sa vivere «nel secolo presente, con sapienza, giustizia e pietà» (Tit 2,12-13). La lettera è importante anche perché vi è documentata la prima organizzazione delle comunità cristiane. A lui l’Apostolo trasmise la bella esortazione ad «annunciare la misericordia di Dio per la quale siamo rigenerati nello Spirito Santo, effuso su di noi abbondantemente» (Tit 3,4-6). Papa Benedetto XVI ha presentato le loro due figure dicendo che Timoteo e Tito «ci insegnano a servire il Vangelo con generosità e a essere i primi nelle opere buone» (ANTONIO M. SICARI, Timoteo e Tito. Due figli nella fede, in Avvenire, 26-1-2012).
Commento al Vangelo
Lc 10, 1-9
In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada.
In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”»
FAUSTI SILVANO, Una comunità legge il Vangelo di Luca, EDB Bologna 1999, pp. 352-360.
- BRUNO FORTE su San Tommaso D’Acquino
- GIORGIO CARBONE in Nuova Bussola Quotidiana 08-03-2024
- INOS BIFFI su padre Chenu e San Tommaso d’Aquino
- ATTUALITÀ DI UN SANTO – TOMMASO SCANDROGLIO in La Nuova Bussola Quotidiana 27-01-2024
Bibliografia:
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RATZINGER JOSEPH BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Rizzoli, Milano 2012, pp. 94-103.
FRANCESCO, Omelia 1-2-2020.
– Udienza generale 30-3-2022.
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CÀNOPI ANNA M., I miei occhi han visto la tua salvezza. Lectio divina sui vangeli dell’infanzia di Gesù, Paoline, Milano 2004, pp. 65-73.
GHIDELLI CARLO, Commento a Luca = Nuovissima Versione della Bibbia, pp. 84-94.
RAVASI GIANFRANCO, Secondo le Scritture. Doppio commento alle letture della domenica. Anno B, Piemme, Casale Monferrato 1993, pp. 347-352.
– I Vangeli del Natale, Ancora, Milano 2009, pp. 127-140.
ROSINI FABIO, Di Pasqua in Pasqua. Commenti al Vangelo domenicale dell’anno liturgico B, San Paolo, Cinisello Balsamo 2022, pp. 58-60.
STOCK KLEMENS, Maria con il suo bambino nel tempio (Lc 2, 21-40), in Il messaggio del Cuore di Gesù 17 (1994) pp. 77-80.
VANHOYE ALBERT, Le letture bibliche delle domeniche. Anno B, Edizioni AdP, Roma 2016, pp. 305-308.
Commento:
«Presentazione al tempio di Gesù. Il testo che narra questo evento gioca su due colori contrastanti: da una parte la luminosa gioia di Simeone e della profetessa Anna che parlano di consolazione, di redenzione e di gloria, e dall’altra l’annunzio di un sentiero di contraddizione, e di spade nell’anima in vista…
Qual è il motivo di questi toni così diversi nello stesso racconto?
Quel che va focalizzato è la ragione della “presentazione” al tempio: la liturgia ci consente di ascoltare il versetto che prepara la visita al tempio, quello in cui si parla del compimento dei “giorni della loro purificazione” come premessa al rito vero e proprio dell’offerta di una coppia di tortore o due giovani colombi per il “riscatto del primogenito”.
Gesù è il primogenito e, per vivere la grazia della maternità, Maria deve passare per un processo di purificazione e, insieme a Giuseppe, occorre “pagare” il riscatto del figlio, per ricordare che il figlio non è loro, che prima di tutto è di Dio.
È la purificazione e l’offerta del primogenito che sono parte del processo della consacrazione: non a caso la Chiesa situa in questa festa la celebrazione del dono della vita consacrata, che è la manifestazione oggettiva del dono del Battesimo che ci consacra tutti come dono di Dio, e a Dio.
Cosa c’è di più naturale della maternità? Perché mai una donna era chiamata alla purificazione? Cosa ci può essere di più sano e bello del fatto che si diventi padri e madri? Perché mai bisogna fare questo sacrificio per adeguare al rapporto con Dio il dono del primo figlio?
“Purificare”, molto più che un atto di rilevanza etica, significa rendere qualcosa di una sola natura, passando spesso per il fuoco – infatti, “purificare” viene dalla parola che in greco significa “fuoco” – per cui abbiamo per esempio “oro puro” o “acqua pura”: solo oro, solo acqua, nient’altro.
Il cuore va purificato? E l’intelligenza? E gli atteggiamenti? C’è per caso il rischio di vivere maternità, paternità, femminilità, mascolinità in modo ambiguo? Si può contemplare che qualcuno infetti il rapporto con la propria paternità-maternità con atteggiamenti auto-referenziali, che non rispettino la verità della vita, del proprio ruolo, del reale possesso delle cose?
Allora iniziamo a capire perché il padre della fede, Abramo, per divenire padre secondo Dio deve passare per vari momenti di distacco, e un giorno mettere la vita del figlio Isacco a totale disposizione della volontà di Dio. Infatti, è proprio a quell’evento che si riferisce il dovere del sacrificio che tutti i pii Israeliti devono fare per i loro primogeniti.
Abbiamo bisogno di purificazione, tutti, sempre. È un processo costante che implica una spada che penetri nell’intimo e distingua ciò che è da Dio e ciò che non lo è. Dobbiamo passare per questo processo permanente di pulizia della nostra intelligenza e delle nostre opere.
Abbiamo vari primogeniti da riscattare. Da cosa? Dalla rapacità del nostro cuore, perlomeno» (FABIO ROSINI, Di Pasqua in Pasqua. Commenti al Vangelo domenicale dell’anno liturgico B, San Paolo, Cinisello Balsamo 2022, pp. 58-60).
Credo che tutto si possa riassumere nell’impegno di passare dallo pseudo-amore possessivo al vero amore, quello oblativo. Direbbe un tomista: dall’ “amor concupiscentiae” all’ “amor benevolentiae”.
Senza la Grazia di Dio, senza un ottimo confessore, un ottimo padre spirituale, tanta preghiera e tanto impegno sono convinto che sia una pia illusione affrontare un tema come questo.
Vi segnalo un libro bellissimo dedicato a questo argomento (io lo cito anche nel mio Manuale): TOMÁŠ ŠPIDLÍK, L’arte di purificare il cuore, Lipa, Roma 2001.
Sant’Agata il cui nome in greco Agathé, significava buona, fu martirizzata verso la metà del III secolo, alcuni reperti archeologici risalenti a pochi decenni dalla morte, avvenuta secondo la tradizione il 5 febbraio 251, attestano il suo antichissimo culto.
Agata nacque nei primi decenni del III secolo (235?) a Catania; la Sicilia, come l’intero immenso Impero Romano era soggetta in quei tempi alle persecuzioni contro i cristiani, che erano cominciate, sia pure occasionalmente, intorno al 40 d.C. con Nerone, per proseguire più intense nel II secolo, giustificate da una legge che vietava il culto cristiano.
Nel III secolo, l’editto dell’imperatore Settimio Severo, stabilì che i cristiani potevano essere prima denunciati alle autorità e poi invitati ad abiurare in pubblico la loro nuova fede. Se essi accettavano di ritornare al paganesimo, ricevevano un attestato (libellum), che confermava la loro appartenenza alla religione pagana, in caso contrario se essi rifiutavano di sacrificare agli dei, venivano prima torturati e poi uccisi.
Era un sistema spietato e calcolato, perché l’imperatore tendeva a fare più apostati possibile che martiri, i quali venivano considerati più pericolosi dei cristiani vivi. Nel 249 l’imperatore Decio, visto il diffondersi comunque del cristianesimo, fu ancora più drastico; tutti i cristiani denunciati o no, dovevano essere ricercati automaticamente dalle autorità locali, arrestati, torturati e poi uccisi.
In quel periodo Catania era una città fiorente e benestante, posta in ottima posizione geografica; il suo grande porto, costituiva un vivace punto di scambio commerciale e culturale dell’intero Mediterraneo.
E come per tutte le città dell’Impero Romano, anche Catania aveva un proconsole o governatore, che rappresentava il potere decentrato dell’impero, ormai troppo vasto; il suo nome era Quinziano, uomo brusco, superbo e prepotente e circondato da una corte numerosa, con i familiari, un numero enorme di schiavi e con le guardie imperiali, dimorava nel ricco palazzo Pretorio con annessi altri edifici, in cui si svolgevano tutte le attività pubbliche della città.
Secondo la ‘Passio Sanctae Agathae’ risalente alla seconda metà del V secolo e di cui esistono due traduzioni, una latina e due greche, Agata apparteneva ad una ricca e nobile famiglia catanese, il padre Rao e la madre Apolla, proprietari di case e terreni coltivati, sia in città che nei dintorni, essendo cristiani, educarono Agata secondo la loro religione.
Cresciuta nella sua fanciullezza e adolescenza in bellezza, candore e purezza verginale, sin da piccola sentì nel suo cuore il desiderio di appartenere totalmente a Cristo e quando giunse sui 15 anni, sentì che era giunto il momento di consacrarsi a Dio. Nei primi tempi del cristianesimo le vergini consacrate, con il loro nuovissimo stile di vita, costituivano un’irruzione del divino in un mondo ancora pagano e in disfacimento.
Il vescovo di Catania accolse la sua richiesta e durante una cerimonia ufficiale chiamata ‘velatio’, le impose il ‘flammeum’, cioè il velo rosso portato dalle vergini consacrate.
Nel mosaico di S. Apollinare Nuovo in Ravenna del VI secolo, è raffigurata con la tunica lunga, dalmatica e stola a tracolla, abbigliamento che lascia supporre che fosse diventata diaconessa.
Il proconsole di Catania Quinziano, ebbe l’occasione di vederla e se ne incapricciò, e in forza dell’editto di persecuzione dell’imperatore Decio, l’accusò di vilipendio della religione di Stato, accusa comune a tutti i cristiani, quindi ordinò che la catturassero e la conducessero al Palazzo Pretorio.
Qui subentrano varie tradizioni popolari, che indicano Agata che scappa per non farsi arrestare e si rifugia in posti indicati dalla tradizione, in una contrada poco distante da Catania, Galermo, oppure a Malta, oppure a Palermo; ma comunque ella viene catturata e condotta da Quinziano.
Il proconsole quando la vede davanti viene conquistato dalla sua bellezza e una passione ardente s’impadronisce di lui, ma i suoi tentativi di seduzione non vanno in porto, per la resistenza ferma della giovane Agata.
Egli allora mette in atto un programma di rieducazione della ragazza affidandola ad una cortigiana di facili costumi di nome Afrodisia, affinché la rendesse più disponibile. Trascorse un mese, sottoposta a tentazioni immorali di ogni genere, con festini, divertimenti osceni, banchetti; ma lei resistette indomita nel proteggere la sua verginità consacrata al suo Sposo celeste, al quale volle rimanere fedele ad ogni costo.
Sconfitta e delusa, Afrodisia riconsegna a Quinziano Agata dicendo: “Ha la testa più dura della lava dell’Etna”. Allora furioso, il proconsole imbastì un processo contro di lei, che si presentò vestita da schiava come usavano le vergini consacrate a Dio; “Se sei libera e nobile” le obiettò il proconsole, “perché ti comporti da schiava?” e lei risponde “Perché la nobiltà suprema consiste nell’essere schiavi del Cristo”.
Il giorno successivo altro interrogatorio accompagnato da torture, tralasciamo i testi degli interrogatori per motivo di spazio, del resto sono articolati diversamente da una ‘passio’ all’altra. Ad Agata vengono stirate le membra, lacerata con pettini di ferro, scottata con lamine infuocate, ma ogni tormento invece di spezzarle la resistenza, sembrava darle nuova forza, allora Quinziano al colmo del furore le fece strappare o tagliare i seni con enormi tenaglie.
Questo risvolto delle torture, costituirà in seguito il segno distintivo del suo martirio, infatti Agata viene rappresentata con i due seni posati su un piatto e con le tenaglie. Riportata in cella sanguinante e ferita, soffriva molto per il bruciore e dolore, ma sopportava tutto per l’amore di Dio; verso la mezzanotte mentre era in preghiera nella cella, le appare s. Pietro apostolo, accompagnato da un bambino porta lanterna, che la risana le mammelle amputate.
Trascorsi altri quattro giorni nel carcere, viene riportata alla presenza del proconsole, il quale visto le ferite rimarginate, domanda incredulo cosa fosse accaduto, allora la vergine risponde: “Mi ha fatto guarire Cristo”. Ormai Agata costituiva una sconfitta bruciante per Quinziano, che non poteva sopportare oltre, intanto il suo amore si era tramutato in odio e allora ordina che venga bruciata su un letto di carboni ardenti, con lamine arroventate e punte infuocate.
A questo punto, secondo la tradizione, mentre il fuoco bruciava le sue carni, non brucia il velo che lei portava; per questa ragione “il velo di sant’Agata” diventò da subito una delle reliquie più preziose; esso è stato portato più volte in processione di fronte alle colate della lava dell’Etna, avendo il potere di fermarla.
Mentre Agata spinta nella fornace ardente muore bruciata, un forte terremoto scuote la città di Catania e il Pretorio crolla parzialmente seppellendo due carnefici consiglieri di Quinziano; la folla dei catanesi spaventata, si ribella all’atroce supplizio della giovane vergine, allora il proconsole fa togliere Agata dalla brace e la fa riportare agonizzante in cella, dove muore qualche ora dopo.
Dopo un anno esatto, il 5 febbraio 252, una violenta eruzione dell’Etna minacciava Catania, molti cristiani e cittadini anche pagani, corsero al suo sepolcro, presero il prodigioso velo che la ricopriva e lo opposero alla lava di fuoco che si arrestò; da allora s. Agata divenne non soltanto la patrona di Catania, ma la protettrice contro le eruzioni vulcaniche e poi contro gli incendi.
L’ultima volta che il suo patrocinio si è rivelato valido, tramite il miracoloso velo, portato in processione dall’arcivescovo di Catania, è stata nel 1886, quando una delle ricorrenti eruzioni dell’Etna, minacciava la cittadina di Nicolosi, posta sulle pendici del vulcano e che venne risparmiata dalla distruzione.
Nel 1040 le reliquie della santa, furono trafugate dal generale bizantino Giorgio Maniace, che le trasportò a Costantinopoli; ma nel 1126 due soldati della corte imperiale, il provenzale Gilberto ed il pugliese Goselmo, le riportarono a Catania dopo un’apparizione della stessa santa, che indicava la buona riuscita dell’impresa; la nave approdò la notte del 7 agosto in un posto denominato Ognina, tutti i catanesi risvegliatasi e rivestitasi alla meglio, accorsero ad onorare la “Santuzza”.
Nei secoli le manifestazioni popolari legate al culto della santa, richiamavano gli antichi riti precristiani alla dea Iside, per questo s. Agata con il simbolismo delle mammelle tagliate e poi risanate, assume una possibile trasfigurazione cristiana del culto di Iside, la benefica Gran Madre, anche se era appena una quindicenne.
Ciò spiegherebbe anche il patronato di s. Agata sui costruttori di campane, perché si sa, nei culti precristiani la campana era simbolo del grembo della Mater Magna. Le sue reliquie sono conservate nel duomo di Catania in una cassa argentea, opera di celebri artisti catanesi; vi è anche il busto argenteo della “Santuzza”, opera del 1376, che reca sul capo una corona, dono secondo la tradizione, di re Riccardo Cuor di Leone.
Il culto per s. Agata fu talmente grande, che fino al XVI secolo, essa era contesa come appartenenza anche da Palermo, la questione è stata a lungo discussa, finché a Palermo il culto per la santa, fu soppiantato da quello per s. Rosalia. Anche a Roma fu molto venerata, papa Simmaco (498-514) eresse in suo onore una basilica sulla Via Aurelia e un’altra le fu dedicata da S. Gregorio Magno nel 593. Nel XIII secolo nella sola diocesi di Milano si contavano ben 26 chiese a lei intitolate. Celebrazioni e ricorrenze per la sua festa avvengono un po’ in tutta Italia, perfino a San Marino, ma è Catania il centro più folcloristico e religioso del suo culto, le feste sono due il 5 febbraio e il 17 agosto, con caratteristiche processioni con il prezioso busto della santa, custodito nel Duomo. Vi sono undici Corporazioni di mestieri tradizionali, che sfilano in processione con le cosiddette ‘Candelore’ fantasiose sculture verticali in legno, con scomparti dove sono scolpiti gli episodi salienti della vita di s. Agata. Il busto argenteo, preceduto dalle ‘Candelore’ è posto a sua volta sul “fercolo”, una macchina trainata con due lunghe e robuste funi, da centinaia di giovani vestiti dal caratteristico ‘sacco’.
Tante altre manifestazioni popolari e folcloristiche, oggi non più in uso, accompagnavano nei tempi trascorsi questi festeggiamenti, a cui partecipava tutto il popolo con le Autorità di Catania, devotissimo alla sua ‘Santuzza’.
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Bibliografia:
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TORNIELLI ANDREA, Pio IX. L’ultimo papa re = Il Giornale. Biblioteca storica, Milano 2004.
«Alla fine vorrei raccontare una piccola storia di santa Giuseppina Bakhita, questa piccola santa africana che in Italia ha trovato Dio e Cristo, e che mi fa sempre una grande impressione. Era suora in un convento italiano; un giorno, il Vescovo del luogo fa visita a quel monastero, vede questa piccola suora nera, della quale sembra non avesse saputo nulla e dice: “Suora cosa fa lei qui?” E Bakhita risponde: “La stessa cosa che fa lei, eccellenza”. Il vescovo visibilmente irritato dice: “Ma come, suora, fa la stessa cosa come me?”, “Sì, – dice la suora – ambedue vogliamo fare la volontà di Dio, non è vero?”. Infine questo è il punto essenziale: conoscere, con l’aiuto della Chiesa, della Parola di Dio e degli amici, la volontà di Dio, sia nelle sue grandi linee, comuni per tutti, sia nella concretezza della mia vita personale. Così la vita diventa forse non troppo facile, ma bella e felice. Preghiamo il Signore che ci aiuti sempre a trovare la sua volontà e a seguirla con gioia» (BENEDETTO XVI, Incontro con i giovani, 25-3-2010).
«Era una bimba africana di uno sperduto villaggio del Sudan, che conosceva e amava Dio solo per lo stupore che provava davanti alle meraviglie della creazione. A 6 anni fu rapita e venduta come schiava a un generale turco; conobbe così la terribile cattiveria degli uomini. Per fortuna fu poi riscattata, al mercato degli schiavi, dal console italiano. Durante una breve visita in Italia, il console portò con sé la ragazza e la cedette temporaneamente a una famiglia di amici veneziani che la volevano come bambinaia. I nuovi “padroni” le permisero di frequentare l’Istituto delle Canossiane per prepararsi al battesimo. Quando giunse il momento di tornare in Africa, la fanciulla non volle più lasciare quelle buone suore: «Non voglio perdere il Buon Dio», diceva piangendo. E a suo sostegno intervenne perfino il patriarca di Venezia (il futuro san Pio X). Nel giorno del battesimo, per lo stupore d’essere stata scelta da Dio come figlia e di sentirsi amata, Bakhita provò una gioia tale che giudicò poi tutto alla luce di quell’infinito e immeritato dono. Nel 1896 emise i voti definitivi nell’Istituto delle Canossiane. Inviata nel convento di Schio, vi ricoprì, fino alla morte (1947), l’incarico di suora portinaia nella scuola materna. I bambini la chiamarono subito “madre Moretta” e il nome familiare le rimase per sempre. A chi la interrogava sulla sua straordinaria avventura, Bakhita ripeteva che soffrire come schiavi non era la peggiore sofferenza del mondo, se si giungeva infine a conoscere il «Padre celeste». Sembrava vivesse in un’abituale commozione e ciò le rendeva facile l’essere sempre a disposizione di tutti, per amore dell’unico “Padre comune”. Per questo, canonizzandola nel 2000, GIOVANNI PAOLO II la definì: “Sorella universale” (ANTONIO M. SICARI, La sorella universale, in Avvenire, 8-2-2012).
BIBLIOGRAFIA
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FRANCESCO, Udienza generale 11-10-2023.
«Alle origini del monachesimo occidentale c’è non soltanto la celebre figura di san Benedetto da Norcia, ma anche la cara figura di santa Scolastica, sua sorella, che fondò, accanto a Montecassino (ma, umilmente, ai piedi della montagna!), un monastero per le donne che volevano consacrarsi a Dio. Di lei non sappiamo molto, e tuttavia quei pochi ricordi che ci sono stati tramandati non esitano a dire che, nel suo cuore di donna, ella riusciva perfino ad “amare di più” del suo celebre fratello. Si tratta del simpatico episodio, raccontato dal papa san Gregorio Magno: Benedetto e Scolastica avevano pattuito tra loro di incontrarsi una volta all’anno, in una casetta vicino al monastero, per trascorrere assieme l’intera giornata occupati in un fraterno e spirituale colloquio. A sera, Scolastica vorrebbe fermarsi ancora, ma Benedetto è ligio alla Regola e vuole rientrare in monastero. Allora Scolastica congiunge le mani in preghiera e scoppia un temporale così violento che impedisce anche solo di uscire da casa. E così i due possono trascorrere ancora qualche ora assieme “a parlare delle gioie della vita celeste”. Il santo Pontefice commenta: «Poté di più, la preghiera di colei che più amava». Il seguito della storia mostra il perché di quell’affettuosa insistenza di Scolastica che era ormai giunta al termine della sua vita. Ella muore, infatti, tre giorni dopo, e Benedetto la fa seppellire nel sepolcro che ha preparato per sé. A quaranta giorni di distanza morirà anche Benedetto. Così, quell’ultimo incontro, a cui Scolastica tanto teneva, diventa un simbolo di quella dolce umanità che deve accompagnare ogni dedizione di sé a Dio. Lì venne costruita una “chiesetta del colloquio”» (ANTONIO M. SICARI, La preghiera potente, in Avvenire, 11-2-2012, p. 2).
Dai Dialoghi di san Gregorio Magno, papa (Lib. 2, 33; PL 66, 194-196)
Poté di più colei che più amò
Scolastica, sorella di san Benedetto, consacratasi a Dio fin dall’infanzia, era solita recarsi dal fratello una volta all’anno. L’uomo di Dio andava incontro a lei, non molto fuori della porta, in un possedimento del monastero. Un giorno vi si recò secondo il solito, e il venerabile suo fratello le scese incontro con alcuni suoi discepoli. Trascorsero tutto il giorno nelle lodi di Dio e in santa conversazione. Sull’imbrunire presero insieme il cibo. Si trattennero ancora a tavola e, col protrarsi dei santi colloqui, si era giunti a un’ora piuttosto avanzata. La pia sorella perciò lo supplicò, dicendo: «Ti prego, non mi lasciare per questa notte, ma parliamo fino al mattino delle gioie della vita celeste». Egli le rispose: «Che cosa dici mai, sorella? Non posso assolutamente pernottare fuori del monastero». Scolastica, udito il diniego del fratello, poggiò le mani con le dita intrecciate sulla tavola e piegò la testa sulle mani per pregare il Signore onnipotente. Quando levò il capo dalla mensa, scoppiò un tale uragano con lampi e tuoni e rovescio di pioggia, che né il venerabile Benedetto, né i monaci che l’accompagnavano, poterono metter piede fuori dalla soglia dell’abitazione, dove stavano seduti. Allora l’uomo di Dio molto rammaricato cominciò a lamentarsi e a dire: «Dio onnipotente ti perdoni, sorella, che cosa hai fatto?». Ma ella gli rispose: «Ecco, ho pregato te, e tu non hai voluto ascoltarmi; ho pregato il mio Dio e mi ha esaudita. Ora esci pure, se puoi; lasciami e torna al monastero». Ed egli che non voleva restare lì spontaneamente, fu costretto a rimanervi per forza. Così trascorsero tutta la notte vegliando e si saziarono di sacri colloqui raccontandosi l’un l’altro le esperienze della vita spirituale. Non fa meraviglia che Scolastica abbia avuto più potere del fratello. Siccome, secondo la parola di Giovanni, «Dio è amore», fu molto giusto che potesse di più colei che più amò. Ed ecco che tre giorni dopo, mentre l’uomo di Dio stava nella cella e guardava al cielo, vide l’anima di sua sorella, uscita dal corpo, penetrare nella sublimità dei cieli sotto forma di colomba. Allora, pieno di gioia per una così grande gloria toccatale, ringraziò Dio con inni e lodi, e mandò i suoi monaci perché portassero il corpo di lei al monastero, e lo deponessero nel sepolcro che aveva preparato per sé. Così neppure la tomba separò i corpi di coloro che erano stati uniti in Dio, come un’anima sola.
BIBLIOGRAFIA
GIOVANNI PAOLO II, Omelia, 21-3-1981.
ARTICOLI SCARICABILI:
- LOURDES Suor Bernadette, miracolata «per la gloria di Dio» – FABIO PIEMONTE
- Lourdes, il romanzo del miracolo – DANIELE ZAPPALÀ
- Preghiera per la giornata mondiale del malato
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GIOVANNI PAOLO II, Omelia 11-2-1979.
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–Angelus, 15-8-2008.
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TROCHU FRANÇOIS, Santa Bernadette, Marietti, Torino 1967.
ARTICOLI SCARICABILI:
Mt 16,13-19
Gesù raduna i discepoli in un luogo appartato e si mette a parlare con loro. Ogni comunità ha bisogno di momenti come questi, non per una vuota e falsa intimità, ma per crescere nella conoscenza e nell’amore del Signore. Gesù chiede cosa dice la gente di lui; ma soprattutto vuol sapere cosa pensano i discepoli. Sapeva bene che era molto viva l’attesa del Messia, sebbene inteso come un uomo forte sia politicamente che militarmente. Avrebbe dovuto liberare il popolo d’Israele dalla schiavitù dei romani. Era un’attesa estranea alla sua missione tesa, invece, alla liberazione radicale dalla schiavitù del peccato e del male. Dopo le prime risposte Gesù va diritto al cuore dei discepoli: «Voi chi dite che io sia?». Ha bisogno che i discepoli siano in sintonia con lui, che abbiano con lui un comune sentire. Pietro prende la parola e, rispondendo per tutti, confessa la sua fede. E riceve subito la beatitudine. Pietro, e con lui quel modesto gruppo di discepoli, fa parte di quei piccoli ai quali il Padre rivela le cose nascoste fin dalla fondazione del mondo. E Simone, uomo come tutti, fatto di carne e sangue, nell’incontro con Gesù riceve una nuova vocazione, un nuovo compito, un nuovo impegno: essere pietra, ossia sostegno per tanti altri, con il potere di legare nuove amicizie e di sciogliere i tanti legami di schiavitù.
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– Omelia, 20-3-2013.
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– Udienze generali dal 17-11-2021 al 16-2-2022.
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COMMENTI
«Ecco la serva del Signore.
Ciò che i profeti avevano annunciato e ciò che Dio stesso aveva anticipato con molti segni nella storia di Israele, è come misteriosamente sintetizzato nel racconto dell’annunciazione. È il segno promesso dal profeta Isaia al re Acaz che ora si compie in un piccolo villaggio della Galilea: «La vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele, perché Dio è con noi›› (Is 7,14-8,10c). L’evangelista Luca, l’unico che ci riporta il racconto dell’annunciazione della nascita di Gesù, ci offre una narrazione coinvolgente ed essenziale allo stesso tempo, capace di condurci alla soglia del mistero che continuamente si affaccia in tutto il racconto e lo avvolge; di esso ci fa percepire contemporaneamente la vicinanza (soprattutto attraverso il dinamismo delle reazioni di Maria alle parole dell’angelo) e l’insondabile profondità (nelle continue aperture verso l’infinito di Dio, soprattutto attraverso le parole dell’angelo). Nel racconto si intrecciano continuamente parole e testi della Scrittura, formando cosi un complesso sottofondo biblico che orienta alla comprensione di ciò che sta avvenendo, senza d’altra parte esaurirlo. Questo racconto può essere riletto attraverso due angolature.
La prima è la gratuità di Dio. Uno sconosciuto villaggio della Galilea e un contesto quotidiano fatto di gioie (una coppia di fidanzati, il desiderio di costruire una famiglia) e di povertà attrae lo sguardo di Dio. L’iniziativa di Dio qui appare in tutta la sua gratuità, come qualcosa di inatteso e che capovolge i criteri umani, fino a raggiungere l’umanamente assurdo: una vergine che non conosce uomo potrà concepire un figlio. Veramente «nulla è impossibile a Dio›› (Lc 1,37). Ma questa gratuità si rivela soprattutto nel saluto dell’angelo Gabriele a Maria: «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te›› (1,28). In queste parole è racchiuso il mistero che abita Maria, diventando il sottofondo trasparente in cui si riflette l’amore di Dio per l’uomo. In questo saluto è impressa, quasi come un sigillo, la vocazione di Maria, il suo nome segreto che solo Dio conosce. Nel cammino di Maria è racchiusa la gioia di ogni promessa di Dio, che troverà compimento nella lieta notizia che è Gesù di Nazaret; nel cammino di Maria si riflette tutta la benevolenza dì Dio, la sua grazia che trasforma radicalmente la povera ragazza di Nazaret rendendola degna del- lo sguardo di Dio; e, infine, nel corpo stesso di Maria, la gioia e la grazia prendono un volto, quello dell’Emmanuele, quello del Signore che abita in mezzo al suo popolo.
Alla gratuità di Dio fa eco l’ascolto di Maria. L’inaudita parola di Dio pronunciata dall’angelo attraversa l’umanità di questa donna, provocando diverse reazioni: in Maria inizia un dialogo interiore, un cammino di riflessione per capire il senso di ciò che ha udito.
È un tratto tipico del modo di reagire di Maria e che Luca sottolinea altre volte: «Maria […] custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (2,19). Questa reazione attiva di Maria (ben ` lungi dalla paura di Zaccaria che rende muto l’uomo) permette di porre domande alla Parola e, di conseguenza, aprire un nuovo orizzonte, uno spazio di novità, un salto di qualità nella propria fede. E d’altra parte, fede e ascolto sono il terreno in cui matura la risposta di Maria alle parole dell’angelo: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (1,38). Con il suo «si» alla Parola, Maria aderisce alla verità più profonda del suo essere: si sente nient’altro che «schiava» e come tale si presenta, libera e senza pretese, davanti al suo Signore. Solo in un cuore e in un corpo così disponibili, la Parola può incarnarsi. È questa la vera beatitudine del credente: «Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto›› (1,45).
O Padre, nella tua infinita gratuità, hai volto il tuo sguardo di compassione su un’umile donna, Maria, e l’hai resa più grande dei serafini e più gloriosa dei cherubini. Si, o Padre, così hai scelto nella tua benevolenza. Ora guarda anche a noi, donaci il tuo Spirito affinché adoriamo il mistero del tuo Verbo, che ha accolto la nostra carne e l’ha fatta dimora della tua santità» (Adalberto Piovano, Messa e preghiera quotidiana, aprile 2016, pp. 49-51).
Annunciazione del Signore Il sì che tutto cambia
«Hai udito, Vergine, che concepirai e partorirai un Figlio, l’angelo aspetta una risposta, deve far ritorno a Dio che l’ha inviato. Aspettiamo, o Signora, una parola di compassione anche noi. O Vergine, da’ presto la risposta» (san Bernardo). Due sono i protagonisti della festa odierna: Dio e la Vergine. Per quanto riguarda Dio, l’apostolo Paolo spiega che qui ci troviamo di fronte a un mistero trinitario, un piano, concepito nell’eternità, da realizzare dal Figlio, su mandato del Padre, con la collaborazione dello Spirito Santo. Inoltre, il mistero «avvolto nel silenzio per secoli eterni», per volere di Dio viene ora manifestato. L’annuncio, destinato a tutte le genti, deve passare attraverso delle persone ben precise. La prima è Maria di Nazaret, chiamata come nessun altro a dare il suo assenso e la sua collaborazione. A lei si rivolge l’angelo Gabriele con un annuncio di gioia che, tuttavia, getta Maria nell’inquietudine. La sua preoccupazione nasce dal sentirsi attribuire un titolo troppo bello, «piena di grazia: il Signore è con te». L’angelo, tuttavia, la rassicura e le spiega che ella è come l’arca dell’alleanza, sede della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. È la Vergine sulla quale sta per scendere lo Spirito di Dio per generare in Lei il Messia, il Figlio stesso di Dio che diventerà anche suo Figlio. A questo punto l’angelo si ferma e attende trepidante la risposta. Con le parole riportate all’inizio san Bernardo ha interpretato al meglio questo frammento di tempo al quale è sospeso il piano eterno. La risposta di Maria: «Ecco la serva del Signore» è colma dei sentimenti cui san Luca dà espressione nel Magnificat.
Note intime di Santa Bernadette Soubirous
PREGHIERA
“O Gesù, vi prego, datemi il pane dell’umiltà, il pane dell’obbedienza, il pane della carità, il pane della forza per spezzare la mia volontà e fonderla nella vostra, il pane della mortificazione interiore, il pane del distacco dalle creature, il pane della pazienza per sopportare le pene che il mio cuore patisce. O Gesù, tu mi vuoi crocifissa, Fiat, il pane dei forti per ben soffrire, il pane di non vedere che te in tutto e sempre, Gesù, Maria, il Crocefisso, non voglio altri amici che questi.”
RACCONTO DEL CONTE DE BRUISSARD
SULLA PROPRIA ESPERIENZA DI LOURDES
“Ero a Castets, nel tempo in cui si parlava tanto delle apparizioni di Lourdes. Non credevo allora né alle apparizioni, né all’esistenza di Dio: ero un ateo. Avevo letto in un giornale del paese che il 16 luglio Bernardette aveva avuto un’apparizione e che la Vergine le aveva sorriso, e perciò avevo deciso di recarmi a Lourdes per curiosità. Mi recai dunque in casa dei genitori, e trovai Bernardette seduta alla porta, intenta a rammendare un paio di calze. Dietro mia richiesta, ella mi parlò delle apparizioni con una semplicità e una sicurezza che mi turbarono. – Ma insomma, le dissi, come sorrideva quella bella Signora? La piccola pastorella mi guardò con aria di stupore, poi dopo un istante di silenzio, esclamò: O Signore, bisognerebbe essere un santo del cielo per rifare quel sorriso! Io mi sentivo disarmato. No, non mentiva, ed io ero lì per gettarmi in ginocchio davanti a lei per chiederle perdono. E Bernardette allora disse: – Poiché vi professate peccatore, io vi farò il sorriso della Vergine. Allora si alzò lentamente in piedi, congiunse le mani e abbozzò un sorriso talmente celeste, quale io non ho mai visto su labbra mortali. Vidi il suo viso riflettere una luce che mi turbò. Senza accorgermi ero già caduto in ginocchio davanti a lei persuaso di avere visto il sorriso di Maria sul volto di Bernardette. Da quel giorno porto in me, in fondo all’anima quel sorriso. Ora vivo del sorriso di Maria!”.
FONTI
CONVENTO SAINT-GILDARD, Bernardetta diceva, Nevers 1988.
LAURENTIN RENÉ’- BOURGEADE MARIE-THÈRESE (a cura di), Logia. Espressioni di Bernardetta (Traduzione di Mario Biffi), NDL Editions, Lourdes 2009
SOUBIROUS BERNADETTE, Quaderno delle note intime. Le parole di Bernadette, Città Nuova, Roma 2007.
STUDI
BENEDETTO XVI, Omelia, 16-4-2012.
GRIECO GIUSEPPE, Lourdes e Bernadette: una storia mariana che continua nel segno della predilezione, in L’Osservatore Romano, 18-2-2004, p. 4.
LAURENTIN RENÉ’, Lourdes. Cronaca di un mistero (Presentazione di Vittorio Messori), Oscar Storia Mondadori 1998.
TROCHU FRANÇOIS, Santa Bernadette, Marietti, Torino 1967.
BIBLIOGRAFIA
FRANCESCO, Udienza generale, 1-5-2013.
Udienza generale, 12-1-2022.
COMMENTI
Famiglia e lavoro
La festa del 19 marzo celebra san Giuseppe con particolare riferimento agli eventi che accompagnarono la nascita di Gesù. La festa odierna ricorda il santo del lavoro fedele e dell’attenta cura per la sua famiglia. Giuseppe era falegname, una professione modesta. Ne è una prova la scarsa considerazione che gli abitanti di Nazaret hanno per la sua famiglia: «Non è costui il figlio del falegname?». Eppure la condizione lavorativa di Giuseppe è importante. La modestia del suo lavoro è in piena sintonia con l’umiltà del Figlio di Dio che scelse la condizione di servo. Con il suo esempio, subito imitato da san Paolo e dalla tradizione monastica, Giuseppe avviava un vero rivolgimento nella considerazione del lavoro manuale. Altrettanto si deve dire della sua premurosa cura della famiglia. Anzitutto, se i Vangeli stendono un velo di rispettoso silenzio sui suoi sentimenti, numerosi indizi ci dicono che egli fu uno sposo affettuoso per Maria. L’amore dimostrato negli eventi straordinari della nascita di Gesù proseguì nella vita quotidiana di Nazaret. Sposo innamorato, Giuseppe fu anche padre attento e premuroso. Il suo impegno lavorativo era finalizzato alla crescita e all’educazione di quel figlio, al cui servizio si pose con umiltà e modestia. Oggi si parla tanto di crisi generata dalla mancanza di lavoro. A questi fenomeni Benedetto XVI ha dedicato l’enciclica “Caritas in veritate”, nella quale scrive: «Lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia». Giuseppe è il modello di un uomo che sa organizzare il suo lavoro e guidare la sua famiglia al ritmo di Dio e dell’amore per il prossimo.
Simboli e umanità nell’iconografia di san Giuseppe lavoratore
Vita quotidiana e familiare di un buon falegname (e ottimo papà)
«I Vangeli non fanno riferimento all’attività di Giuseppe: se ne parla solo in occasione della discussione sulla provenienza del Cristo: “Non è costui il falegname, il figlio di Maria?”. Il termine usato dagli evangelisti – tèkton – tradotto con “falegname”, può assumere il significato di “carpentiere” e “fabbro”. L’apologista Giustino nel Dialogo con l’ebreo Trifone, composto intorno al 155, riferisce che Gesù faceva aratri di legno e gioghi. E nell’apocrifo dello Pseudo-Matteo e nella Storia di Giuseppe falegname si dice espressamente che Giuseppe “era ben istruito nella saggezza e nell’arte della falegnameria”. L’iconografia trasmette sporadicamente questo aspetto di san Giuseppe faber lignarius: si segnalano due miniature del dodicesimo e tredicesimo secolo relative alla scena del ritorno di Giuseppe dai cantieri, in cui si evidenzia l’uso di strumenti da lavoro: nella prima una sega e nell’altra un’ascia. Queste figurazioni, attribuite a maestranze del nord-Italia, non erano frutto del caso; una corrente dottrinale, infatti, ha inteso vedere nel santo che lavora per fabbricare oggetti utili, l’immagine del Padre celeste, artefice di tutte le cose, o anche lo Spirito santo, santificatore. E Massimo il confessore (+ 662): “Esercitava il mestiere di carpentiere, esperto nell’arte più di tutti gli altri carpentieri: infatti doveva essere al servizio del vero architetto, il creatore e carpentiere di tutte le creature”. Si trattava, in definitiva, di un discorso esegetico che presentava in chiave simbologica – tipo/anti-tipo – il personaggio e il suo mestiere, ponendolo in stretta relazione con la divinità e la sua opera salvifica: Adamo-Eva = Giuseppe-Maria = Cristo-Chiesa; Dio artefice del creato = Giuseppe artigiano di manufatti. Sul piano testuale, le fonti d’ispirazione nel medioevo furono principalmente due: la Legenda Aurea del domenicano Jacopo da Varazze, enciclopedica raccolta di vite dei santi a uso dei predicatori, a cui attinsero ampiamente anche gli artisti, e le Meditationes dello Pseudo-Bonaventura, opera mistica di ambito francescano, in cui nel capitolo sulla permanenza in Egitto si legge: “Trovano una casetta e vi restano per sette anni(…) Ho letto da qualche parte che la Signora procurava il necessario alla vita per sé e per suo figlio tessendo e cucendo(…) In più, c’era quel santo vecchietto di Giuseppe che, come falegname, si dava da fare”. Nell’arte paleocristiana, la figura di san Giuseppe venne rappresentata con intenti narrativi e didascalici, quale elemento provvidenziale della Redenzione. E per connotarlo visivamente, una sega al suo fianco, come vediamo ad esempio nell’Evangeliario di Milano, del quinto secolo; una figurazione affine compare nel riquadro di seta sargia, appartenente al tesoro del Sancta Sanctorum al Laterano in Roma, risalente al sesto secolo. Si andava affermando la rappresentazione del faber lignarius, “un tipo carico di realismo, e perciò coerente con lo spirito della società occidentale: la quale, come ad esempio preferì vedere il martire non nella ieratica trascendenza dell’arte orientale, ma nella realtà della sua sofferenza e conseguentemente lo raffigurò con gli strumenti della sua passione, allo stesso modo volle vedere Giuseppe in una dimensione tutta umana: uomo dunque tra gli uomini, non diverso dagli altri solo perché eletto a rendere testimonianza del grande avvenimento dell’incarnazione”. Nel medioevo, con la fioritura delle sacre rappresentazioni, spettacolo di piazza edificante, Giuseppe presenta i tratti del padre operoso e accogliente: sistema la paglia, giaciglio di fortuna nella povera stalla, dove il Bambino giace come ostia di splendente candore, nell’oscurità della grotta. E porta fascine, accoglie i pastori offerenti, esprimendosi nel linguaggio umano dei sentimenti. Il rinascimento, poi, vede affermarsi nuove figurazioni, ispirate alle Rivelazioni di santa Brigida: Giuseppe va in cerca di un lume, di fuoco, di cibo. La sua immagine si arricchisce di aspetti, gesti e motivi, tratti dalla quotidianità, assumendo sempre più un profilo realistico e attualizzato. Mentre fino al rinascimento Giuseppe veniva raffigurato all’interno del ciclo dell’infanzia, e mai isolatamente, l’affermarsi del culto, nel corso del quindicesimo secolo, determinò tipologie innovative che ne accentuavano il ruolo di padre putativo, educatore, intercessore e patrono. Ciò si deve, innanzitutto, all’azione degli ordini mendicanti, promotori di una pietà più vicina alla sensibilità dei fedeli: in Italia san Bernardino da Feltre e san Bernardino da Siena contribuirono alla diffusione del culto, sollecitandone la raffigurazione in sembianze di età matura, e non senile come d’uso; il prestigioso teologo francese Giovanni Gerson ne promosse la devozione, da esprimersi concretamente nella festa dello Sposalizio di Maria e Giuseppe. L’introduzione ufficiale del culto è legata alla figura di Sisto IV (1471-1484): il testo non ci è pervenuto, ma la sua promulgazione è sicura, poiché il Breviario romano, pubblicato a Venezia nel 1479, offre per la prima volta, al 19 marzo, la festa del santo. Gregorio XV, nel 1621, ne decretò la festa, tra quelle comandate; a partire da questa data, si registra un impulso particolare della produzione artistica, dovuto soprattutto alla committenza di gruppi laicali, confraternite, compagnie d’arti e mestieri, istituti religiosi, che ne invocavano il patrocinio, e vollero dotarsi di opere d’arte rappresentative. È di questo periodo una molteplicità di realizzazioni: cicli pittorici, pale d’altare destinate alla decorazione di omonime cappelle, statue, incisioni, reliquiari, medaglie. Per quanto riguarda, specificamente, l’attività artigianale, la prima scena di lavoro che vede Giuseppe intento al banco di falegname, è quella riferita al miracolo dell’asse allungata, di derivazione apocrifa. Si narra come il falegname, trovandosi alle prese con un’asse dalla lunghezza non corrispondente a quanto ordinatogli, trovasse aiuto nel bambino Gesù, che prodigiosamente intervenne dicendogli di tirare insieme l’asse, allungata come occorreva: la scena è narrata nell’Evangelica Historia, opera trecentesca di ambito lombardo: “Quando Gesù aveva otto anni, Giuseppe faceva il falegname e lavorava col legno. Un giorno un uomo ricco lo pregò dicendo: signor Giuseppe, vi prego che mi facciate un letto ottimo e bello, e gli fornì il legno per l’opera. Giuseppe preso il legno cominciò a misurarlo: non andava bene però per fare quel mobile, perché l’aveva tagliato (male). Si angustiava Giuseppe, perché non riusciva a fare come voleva. Il fanciullo Gesù vedendo Giuseppe rattristarsi, gli disse: non angustiarti, ma prendi il legno da un capo e io lo prenderò dall’altro, e lo tirerò quanto possiamo. Fatto questo, Giuseppe si accinse di nuovo a misurare il legno e lo trovò ottimo per quel lavoro. Visto quello che aveva fatto Gesù, Giuseppe lo abbracciò dicendo: “Sono felice che Dio mi ha dato un tale fanciullo””. L’episodio venne a lungo tramandato, divenendo parte integrante della tradizione orale. Ma la scena di lavoro più largamente rappresentata, fu la Sacra Famiglia nella bottega, i cui primi esemplari si ebbero all’inizio del sedicesimo secolo – Albrecht Durer (1471-1528), Luca Cambiaso (1527-1585), Federico Barocci (1535-1612), Bartolomeo Schedoni (1578ca-1615). Questa iconografia intendeva descrivere la vita quotidiana a Nazaret, secondo il gusto per il naturalismo e lo stile descrittivo invalso nell’arte sacra. Lo schema figurativo presenta Maria, intenta a cucire o filare, Giuseppe falegname al suo banco da lavoro, alle prese con l’accetta, la sega, o la pialla, contornato dagli attrezzi e dalle travi – generalmente tre – e Gesù operoso, impegnato nell’apprendistato, o nelle piccole incombenze domestiche. Nel periodo della riforma cattolica si dedicò particolare attenzione alle immagini, quale tramite per richiamare ideali di operosità; e soprattutto con l’istituzione della festa liturgica nel 1621, il tipo iconografico del santo falegname conobbe una speciale fioritura, e venne arricchito di elementi simbologici, funzionali agli intenti catechetici di cui l’arte doveva farsi interprete. All’interno del contesto narrativo della Sacra Famiglia, intessuto di aspetti leggendari e dottrinali, troveranno spazio elementi che esplicitano il presagio della Passione, innanzitutto nel motivo iconografico della croce, presente in modo figurato o in via di realizzazione; inoltre, il tema è richiamato dagli strumenti da lavoro, che alludono significativamente agli strumenti della Passione, e ancora, è rievocato dai simboli eucaristici. Gli strumenti, la croce, i simboli, richiamano così alla mente dell’osservatore non solo il mestiere compiuto dal padre e dal figlio, ma soprattutto il progetto salvifico che quegli strumenti avrebbero portato a compimento. Assumevano, dunque, una valenza simbolica archetipica, tale da potersi riproporre in altre scene del ciclo santorale, al di fuori del proprio contesto narrativo: figurano infatti nelle scene del Sogno, come si vede nella maiolica settecentesca di Monticchio – sita nel chiostro del monastero del Santissimo Rosario di Monticchio a Massa Lubrense (Napoli) – o nella Natività della Chiesa di san Francesco a Camerano (Ancona), o in varie raffigurazioni del Transito. L’iconografia della Sacra Famiglia nella bottega del falegname, dunque, si fa portatrice di temi e motivi profondi e significativi, a partire dal diciassettesimo secolo, improntando figurazioni nuove, pur attingendo al repertorio iconografico tradizionale. La spiritualità della riforma cattolica portò infatti all’innovazione dei moduli consueti, e altri ne determinò. Questo il processo riscontrabile nelle seguenti figurazioni. In primo luogo si propone la raffigurazione dell’Oratorio del Binengo di Sergnano (Cremona): opera di fattura popolaresca, dall’impianto figurativo essenziale, mostra un originale motivo iconografico sullo sfondo, una torre, simbolo mariologico, da cui provengono gli angeli recanti le travi. Mentre Giuseppe pialla, Maria cuce, e Gesù adolescente spazza; si legge, nella Mistica Città di Dio di suor Maria de Agreda (1717), come nella vita familiare Maria e Gesù riordinano e riassettano l’ambiente di lavoro . Più ricercata l’impostazione della Sacra Famiglia attribuita a Giulio Clovio (1498-1598), pergamena dipinta della Fondazione Querini-Stampalia (Venezia): un fitto pergolato sovrasta la scena, in cui campeggia il Bambino, in candida veste, che trattiene un fiore allusivo alla futura Passione. Giuseppe lavora al bancone, mentre gli angeli dispongono il legno, in piccoli pezzi. Nel cesto di Maria, la veste azzurra che richiama la divinità, la natura divina che Cristo assumerà. Vari dettagli simbologici richiamano la nostra attenzione: i legni tra le mani dell’angelo chinato, dall’apparenza di canne spezzate, sono tre, come tre quelli nel cesto, di cui uno, ricurvo, descrive una croce sovrapponendosi all’ultimo legnetto. La canna raffigurata, sembra richiamare il momento delle battiture inflitte al Cristo nel Pretorio, così come l’uva del pergolato richiama il sangue versato per la Redenzione degli uomini. Ancora, i tre vasi di fiori si differenziano per il loro contenuto: quello accanto a Giuseppe è spoglio, mentre quello più prossimo al Bambino è fiorito e rigoglioso; in lontananza, il giardino circoscritto da mura rievoca il tema dell’Hortus Conclusus. Ancora più esplicito il riferimento eucaristico nella Sacra Famiglia di Jan Soens (1547ca-1610-11), in cui campeggia una vite avviluppata al tronco centrale, il cui frutto maturo viene offerto da un angelo che si fa incontro all’osservatore; il Bambino prende per mano Giuseppe, per volgerlo verso Maria intenta a cucire la veste della Passione. Una linea ideale congiunge il volto di Maria, lungo l’asse visivo della tettoia di paglia, alla figurazione dell’uccellino, che simbolizza il paradiso. E un’altra linea ideale sembra riconnettere lo sguardo della madre, dapprima al figlio, e successivamente alla mano operosa del falegname. Il gioco di sguardi è emblematico nella seicentesca Sacra Famiglia del Maestro di Serrone, oggi nel museo diocesano di Foligno, in cui il Bambino, dall’espressione intensa, sta annodando due legnetti, in foggia di croce, con un filo proveniente dal gomitolo nel cesto, significativamente posato su un libro di piccole dimensioni, che allude alla Scrittura. E accanto, il drappo azzurro che simbolizza il divino. Caratteristica la Sacra Famiglia di Cesare Mariani (1828-1901) – nella chiesa romana di san Giuseppe dei Falegnami – in cui la croce domina la scena, efficace richiamo visivo, insieme alla veste rossa di Gesù, che richiama la Passione. Di particolare valore simbologico, l’opera del pistoiese Giuseppe Catani Chiti, che partecipò al concorso nazionale di Torino per una Sacra Famiglia, nel 1898. Il trittico in cui è inserita la rappresentazione, denota il gusto per la tradizione pittorica senese; il fulcro della composizione risiede nella particolarità del giogo sulle spalle di Gesù, iconografia di ispirazione francescana, presente nella vela dell’obbedienza nella basilica inferiore ad Assisi. L’iscrizione evangelica che appare sul giogo iugum meum suave est, richiama la mite sottomissione del Cristo, quale figlio nella Sacra Famiglia, e con accentuato simbolismo allude all’obbedienza evangelica; Giuseppe trattiene tra le mani una parte dell’aratro in costruzione, di cui l’elemento in primo piano è una componente. Molti i dettagli rivelatori di una profonda cultura scritturistica e simbologica: le lumeggiature radiali, l’arcobaleno, il colorismo delle figurazioni. Il pittore contemporaneo Rodolfo Romano ha realizzato nel 1990 La Famiglia di Nazaret. Qui Giuseppe è il protagonista di primo piano, lavora una croce, dinanzi a una tavola su cui si nota una brocca, del pane, e frutti simbologici: una mela e dell’uva. La stella davidica, distinguibile nella decorazione a parete, richiama la stirpe; il fuoco manifesta lo Spirito. Sul pavimento, la luce della finestra proietta un’ombra a forma di croce; è segno dell’estremo abbassamento. L’insieme dei temi e motivi che l’iconografia ha espresso, riguardo la figura di Giuseppe artigiano, si rispecchiò infine nelle immaginette sacre, in un processo di continuità che attesta, al di là dei limiti spazio-temporali, la persistenza di moduli figurativi di molto anteriori, e la cui lettura, e decifrazione, apre la via a cognizioni di sorprendente valenza culturale. Un santino, particolarmente rappresentativo della tipologia in esame, illustra la Sacra Famiglia nella bottega; qui anche Gesù ha l’abito da lavoro, conformandosi a Giuseppe, che presenta – specie a partire dall’istituzione della festa di Giuseppe patrono del lavoratori, decretata da Papa Leone XIII nel 1889 – l’abito da operaio, non più il saio o l’abito confraternale, di cui era precedentemente rivestito» (STEFANIA COLAFRANCESCHI, in L’Osservatore Romano, 1 maggio 2008),
BIBLIOGRAFIA
BENEDETTO XVI, Udienza generale 6-9-2006.
FRANCESCO, Omelia 3-5-2013,
– Omelia 3-5-2016.
PRIMA LETTURA
SETTIMIO CIPRIANI, Le lettere di san Paolo, Cittadella, Città di Castello 1974, pp. 217-220.
COMMENTI
Gesù disse a Tommaso: «Io sono la via, la verità, la vita». Sant’Agostino commenta queste parole di Gesù ricordando a tutti noi che il Cristo, rimanendo presso il Padre, da sempre fu la verità, cioè colui che svela il senso di ogni cosa. Venendo in mezzo a noi, con la sua vita terrena e il suo Vangelo, si è fatto via, per condurre tutti alla vita. Filippo insiste col Signore: vuol vedere il Padre, come quelli, tanti, che hanno la loro idea di Dio e non vogliono compromettersi con la via che Gesù ci ha insegnato. Seguire Lui è mettere in pratica la sua Parola in questa Chiesa che davvero fa presente nel tempo quell’unico corpo di cui Gesù è il capo e noi le membra. Quando acquisti consapevolezza di questa esperienza che ci viene proposta ti accorgi che qualunque cosa chiedi nella preghiera diventa possibile. Il Signore ci fa partecipi della sua missione.
«I discepoli, all’esortazione di non rattristarsi per la partenza del Maestro che lascia loro indicazioni sulla via per raggiungerlo, rispondono che non sanno dove egli va e quindi non possono conoscere la via. Gesù dice loro che la via è lui stesso. È lui che li condurrà al Padre. Filippo, come per afferrare finalmente il discorso, chiede: “Mostraci il Padre e ci basta”. Gesù risponde, accorato, con un rimprovero: “Da tanto tempo sono con voi e non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre”. Penetriamo qui nel cuore del Vangelo e della fede cristiana. Vi è qui anche il nodo di ogni ricerca religiosa. Dio lo incontriamo attraverso Gesù. “Nessuno ha mai visto Dio”, scrive Giovanni nella sua prima lettera (4,12). Ebbene, Gesù ce lo rivela. Se vogliamo vedere il volto di Dio, basta vedere Gesù; se vogliamo conoscere il pensiero di Dio, è sufficiente conoscere il Vangelo; se vogliamo capire il modo d’agire di Dio, dobbiamo osservare il comportamento di Gesù. I discepoli hanno solo questa immagine di Dio: un Dio che fa risorgere i morti, che si fa bambino pur di starci accanto, che piange sull’amico morto, che cammina per le vie degli uomini, che si ferma, che guarisce e che si appassiona per tutti. È davvero il Padre di tutti e particolarmente dei più deboli» (VINCENZO PAGLIA, 13-5-2006).
Paolo VI, Omelia, 13-5-1967.
Giovanni Paolo II, Omelia 13-5-1982.
– Omelia 13-5-2000, in La traccia 2000, 407-411.
– Udienza generale 17-5-2000, in La traccia 2000, 419-420.
Francesco, Interventi vari, 13-5-2017.
Congregazione per la Dottrina della Fede, Il Messaggio di Fatima, 2000.
Incontro di S. E. mons. Tarcisio Bertone con Suor Maria Lucia de Jesus e do Coracao Imaculado (convento di Coimbra, 17-11-2001), in L’Osservatore Romano, 21-12-2001, p. 4; in Bollettino diocesano 79 (2001) 746-748.
Il messaggio di Fatima, in La Civiltà Cattolica 151 (2000), 3, pp. 163-179.
I dialoghi tra suor Lucia e l’inviato del Papa, in Vita pastorale 95 (2007) 8/9, pp. 80-82.
Carmelo di Coimbra, Un cammino sotto lo sguardo di Maria. Biografia di suor Lucia di Gesù e del Cuore Immacolato di Maria, Edizioni OCD, Roma 2018.
Bertone Tarcisio – De Carli Giuseppe, L’ultima veggente di Fatima. i miei colloqui con suor Lucia, Rai Eri Rizzoli, Milano 2007.
De Fiores Stefano, Lucia ultima veggente di Fatima nella testimonianza del card. Bertone, in L’Osservatore Romano, 6-6, 2007, p. 5.
Felici Icilio, Fatima, Paoline, 1992.
Gonzaga da Fonseca Luigi, Le meraviglie di Fatima, Paoline, Roma 1977.
Molinari Paolo, I bambini di Fatima, in La Civiltà Cattolica 151 (2000), 2, 254-262.
Ratzinger Joseph, Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio. In colloquio con Peter Seewald, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, pp. 280-283.
Rodari Paolo – Tornielli Andrea, Attacco a Ratzinger, Piemme, Milano 2010, pp. 264-280.
Benedetto XVI, Udienza generale, 18-10-2006.
- Omelia 14-5-2010.
Francesco, Omelia, 14-5-2013.
- Omelia, 14-5-2018.
Eletto nuovo dodicesimo
«”Ne fece 12″: 12 era il numero simbolico di Israele, il numero dei figli di Giacobbe. Da loro derivavano le 12 tribù di Israele, delle quali però dopo l’esilio era rimasta praticamente solo la tribù di Giuda. Così il numero 12 è un ritorno alle origini di Israele, ma allo stesso tempo simbolo di speranza; viene ristabilito l’intero Israele, vengono radunate nuovamente le 12 tribù». (Benedetto XVI). Il primo atto pubblico della comunità cristiana dopo l’ascensione del Signore è un’elezione. Alle 120 persone presenti, Pietro spiega che, per ricostituire il numero dei 12, bisogna sostituire nel ministero apostolico Giuda il traditore. Enuncia inoltre i criteri per poter essere ammessi all’elezione. I candidati devono aver accompagnato Gesù dall’inizio della vita pubblica fino all’Ascensione. Soprattutto devono essere testimoni della resurrezione. Solo due discepoli presentano questi requisiti: Giuseppe detto Barsabba e Mattia. Poi la comunità si rivolge al Signore risorto chiedendogli di indicare il prescelto mediante la sorte. Gli operai della messe devono sempre essere chiesti a Dio e da Lui scelti. L’usanza della sorte ci riporta all’origine di Israele e dice che la comunità cristiana è la continuazione dell’Israele fedele, è il popolo di Dio del futuro. Come sappiamo la sorte cade su Mattia che viene associato agli apostoli. Non sappiamo altro di lui. La sua funzione si esaurisce nel compito di ricostituire in pienezza il collegio degli apostoli, fondamento della Chiesa. Secondo la tradizione, predicò il Vangelo in Etiopia dove morì martire, probabilmente decapitato. Per questo viene raffigurato con la scure ed è patrono dei macellai e dei falegnami.
BIBLIOGRAFIA
FRANCESCO, omelia, 21-5-2018.
Decreto della
Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti sulla
celebrazione della beata Vergine Maria Madre della Chiesa nel Calendario Romano
Generale, 03.03.2018
CONGREGATIO DE
CULTO DIVINO ET DISCIPLINA SACRAMENTORUM
DECRETO
sulla celebrazione
della beata Vergine Maria
Madre della Chiesa
nel Calendario Romano Generale
La gioiosa venerazione riservata alla Madre di Dio
dalla Chiesa contemporanea, alla luce della riflessione sul mistero di Cristo e
sulla sua propria natura, non poteva dimenticare quella figura di Donna (cf.
Gal 4, 4), la Vergine Maria, che è Madre di Cristo e insieme Madre della
Chiesa.
Ciò era già in qualche modo presente nel sentire
ecclesiale a partire dalle parole premonitrici di sant’Agostino e di san Leone
Magno. Il primo, infatti, dice che Maria è madre delle membra di Cristo, perché
ha cooperato con la sua carità alla rinascita dei fedeli nella Chiesa; l’altro
poi, quando dice che la nascita del Capo è anche la nascita del Corpo, indica
che Maria è al contempo madre di Cristo, Figlio di Dio, e madre delle membra
del suo corpo mistico, cioè della Chiesa. Queste considerazioni derivano dalla
divina maternità di Maria e dalla sua intima unione all’opera del Redentore,
culminata nell’ora della croce.
La Madre infatti, che stava presso la croce (cf. Gv
19, 25), accettò il testamento di amore del Figlio suo ed accolse tutti gli
uomini, impersonati dal discepolo amato, come figli da rigenerare alla vita
divina, divenendo amorosa nutrice della Chiesa che Cristo in croce, emettendo
lo Spirito, ha generato. A sua volta, nel discepolo amato, Cristo elesse tutti
i discepoli come vicari del suo amore verso la Madre, affidandola loro affinché
con affetto filiale la accogliessero.
Premurosa guida della Chiesa nascente, Maria iniziò
pertanto la propria missione materna già nel cenacolo, pregando con gli
Apostoli in attesa della venuta dello Spirito Santo (cf. At 1, 14). In questo
sentire, nel corso dei secoli, la pietà cristiana ha onorato Maria con i
titoli, in qualche modo equivalenti, di Madre dei discepoli, dei fedeli, dei
credenti, di tutti coloro che rinascono in Cristo e anche di “Madre della
Chiesa”, come appare in testi di autori spirituali e pure del magistero di
Benedetto XIV e Leone XIII.
Da ciò chiaramente risulta su quale fondamento il
beato papa Paolo VI, il 21 novembre 1964, a conclusione della terza Sessione
del Concilio Vaticano II, dichiarò la beata Vergine Maria «Madre della Chiesa,
cioè di tutto il popolo cristiano, tanto dei fedeli quanto dei Pastori, che la chiamano
Madre amantissima», e stabilì che «l’intero popolo cristiano rendesse sempre
più onore alla Madre di Dio con questo soavissimo nome».
La Sede Apostolica pertanto, in occasione dell’Anno
Santo della Riconciliazione (1975), propose una messa votiva in onore della beata Maria Madre della Chiesa,
successivamente inserita nel Messale Romano; diede anche
facoltà di aggiungere l’invocazione di questo titolo nelle Litanie Lauretane
(1980) e pubblicò altri formulari nella raccolta di messe della beata Vergine
Maria (1986); ad alcune nazioni, diocesi e famiglie religiose che ne facevano
richiesta, concesse di aggiungere questa celebrazione nel loro Calendario
particolare.
Il Sommo Pontefice Francesco, considerando
attentamente quanto la promozione di questa devozione possa favorire la
crescita del senso materno della Chiesa nei Pastori, nei religiosi e nei
fedeli, come anche della genuina pietà mariana, ha stabilito che la memoria
della beata Vergine Maria, Madre della Chiesa, sia iscritta nel Calendario
Romano nel Lunedì dopo Pentecoste e celebrata ogni anno.
Questa celebrazione ci aiuterà a ricordare che la
vita cristiana, per crescere, deve essere ancorata al mistero della Croce,
all’oblazione di Cristo nel convito eucaristico, alla Vergine offerente, Madre
del Redentore e dei redenti.
Tale memoria dovrà quindi apparire in tutti i
Calendari e Libri liturgici per la celebrazione della Messa e della Liturgia
delle Ore; i relativi testi liturgici sono allegati a questo decreto e le loro
traduzioni, approvate dalle Conferenze Episcopali, saranno pubblicate dopo la
conferma di questo Dicastero.
Dove la celebrazione della beata Vergine Maria, Madre
della Chiesa, a norma del diritto particolare approvato, già si celebra in un
giorno diverso con un grado liturgico più elevato, anche in futuro può essere
celebrata nel medesimo modo.
Nonostante qualsiasi cosa in contrario.
Dalla sede della Congregazione per il Culto Divino e
la Disciplina dei Sacramenti, 11 febbraio 2018, memoria della beata Maria
Vergine di Lourdes.
Robert Card.
Sarah
Prefetto
+ Arthur Roche
Arcivescovo Segretario
A seguito dell’iscrizione nel Calendario Romano della memoria
obbligatoria della beata Vergine Maria Madre della Chiesa, che tutti devono
celebrare già quest’anno il lunedì dopo Pentecoste, è sembrato opportuno
offrire le seguenti indicazioni. La rubrica che si legge nel Messale Romano
dopo i formulari della Messa di Pentecoste: «Nei luoghi dove, per consuetudine,
i fedeli partecipano numerosi alla Messa del lunedì e del martedì di Pentecoste,
si riprende la Messa della domenica di Pentecoste o si dice una “Messa votiva”
dello Spirito Santo» (Messale Romano, p. 243), vale ancora poiché non deroga
alla precedenza tra i giorni liturgici che, in quanto alla loro celebrazione,
sono regolati unicamente dalla Tabella dei giorni liturgici (cf. Norme generali
per l’ordinamento dell’Anno liturgico e del Calendario, n. 59). Similmente la
precedenza è ordinata dalla normativa sulle Messe votive: «Missæ votivæ per se
prohibentur in diebus quibus occurrit memoria obligatoria aut feria Adventus
usque ad diem 16 decembris, feria temporis Nativitatis a die 2 ianuarii, et
temporis paschalis post octavam Paschatis. Si tamen utilitas pastoralis id
postulet, in celebratione cum populo adhiberi potest Missa votiva huic
utilitati respondens, de iudicio rectoris ecclesiæ vel ipsius sacerdotis
celebrantis» (Missale Romanum, p. 1156; cf. Ordinamento generale del Messale
Romano, n. 376). Tuttavia, a parità di importanza, è da preferire la memoria
obbligatoria della beata Vergine Maria Madre della Chiesa, i cui testi sono
annessi al Decreto, con le letture indicate, da ritenere proprie, poiché
illuminano il mistero della Maternità spirituale. In una futura edizione
dell’Ordo lectionum Missae n. 572 bis la rubrica indicherà espressamente che le
letture sono proprie e pertanto, sebbene si tratti di memoria, sono da adottare
al posto delle letture del giorno corrente (cf. Lezionario, Introduzione, n.
83). Nel caso di coincidenza di questa memoria con un’altra memoria si seguono
i principi delle norme generali per l’Anno liturgico e il Calendario (cf.
Tabella dei giorni liturgici, n. 60). Essendo poi la memoria della beata
Vergine Maria Madre della Chiesa legata alla Pentecoste, come similmente la
memoria del Cuore Immacolato della beata Vergine Maria è congiunta alla
celebrazione del Sacratissimo Cuore di Gesù, in caso di coincidenza con altra
memoria di un Santo o di un Beato, secondo la tradizione liturgica della
preminenza tra le persone, prevale la memoria della beata Vergine Maria.
Il 21 novembre 1964, a conclusione della terza
Sessione del Concilio Vaticano II, dichiarò la beata Vergine Maria «Madre della
Chiesa, cioè di tutto il popolo cristiano, tanto dei fedeli quanto dei Pastori,
che la chiamano Madre amantissima». La Sede Apostolica pertanto, in occasione
dell’Anno Santo della Riconciliazione (1975), propose una messa votiva in onore
della beata Maria Madre della Chiesa, successivamente inserita nel Messale
Romano; diede anche facoltà di aggiungere l’invocazione di questo titolo nelle
Litanie Lauretane (1980). Papa Francesco, considerando attentamente quanto la
promozione di questa devozione possa favorire la crescita del senso materno
della Chiesa, come anche della genuina pietà mariana, ha stabilito nel 2018 che
la memoria della beata Vergine Maria, Madre della Chiesa, sia celebrata dal
Calendario Romano nel Lunedì dopo Pentecoste
LEONE XIII, Lettera Apostolica Umbria gloriosa sanctorum parens.
GIOVANNI PAOLO II, Lettera, 10-2-1982.
– Discorso 20-5-2000.
CUOMO FRANCO, Santa Rita degli impossibili, Piemme.
SICCARDI CRISTINA, Santa Rita da Cascia e il suo tempo, San Paolo 2004.
«“Auxilium Christianorum”; ‘Aiuto dei Cristiani’, è il bel titolo che è stato dato alla Vergine Maria
in ogni tempo e così viene invocata anche nelle litanie a Lei dedicate dette anche Lauretane perché
recitate inizialmente a Loreto.
Sulle virtù, la vita, la predestinazione, la maternità, la mediazione, l’intercessione, la verginità,
l’immacolato concepimento, i dolori sofferti, l’assunzione di Maria, sono stati scritti migliaia di
volumi, tenuti vari Concili, proclamati dogmi di fede, al punto che è sorta un’autentica scienza
teologica: la Mariologia.
E sempre è stata ribadita la presenza mediatrice e soccorritrice della Madonna per chi la invoca, a
lei fummo affidati come figli da Gesù sulla Croce e a noi umanità è stata indicata come madre, nella
persona di Giovanni apostolo, anch’egli ai piedi della Croce.
Ma la grande occasione dell’utilizzo ufficiale del titolo “Auxilium Christianorum” si ebbe con
l’invocazione del grande papa mariano e domenicano san Pio V (1566-1572), che le affidò le
armate ed i destini dell’Occidente e della Cristianità, minacciati da secoli dai turchi arrivati fino a
Vienna, e che nella grande battaglia navale di Lepanto (1571) affrontarono e vinsero la flotta
musulmana.
Il papa istituì per questa gloriosa e definitiva vittoria, la festa del S. Rosario, ma la riconoscente
invocazione alla celeste Protettrice come “Auxilium Christianorum”, non sembra doversi attribuire
direttamente al papa, come venne poi detto, ma ai reduci vittoriosi che ritornando dalla battaglia,
passarono per Loreto a ringraziare la Madonna; lo stendardo della flotta invece, fu inviato nella
chiesa dedicata a Maria a Gaeta dove è ancora conservato.
Il grido di gioia del popolo cristiano si perpetuò in questa invocazione; il Senato veneziano fece
scrivere sotto il grande quadro commemorativo della battaglia di Lepanto, nel Palazzo Ducale: “Né
potenza, né armi, né condottieri ci hanno condotto alla vittoria, ma Maria del Rosario” e così a
fianco agli antichi titoli di ‘Consolatrix afflictorum’ (Consolatrice degli afflitti) e ‘Refugium
peccatorum’ (Rifugio dei peccatori), si aggiunse per il popolo e per la Chiesa ‘Auxilium
Christianorum (Aiuto dei cristiani).
Il culto pur continuando nei secoli successivi, ebbe degli alti e bassi, finché nell’Ottocento due
grandi figure della santità cattolica, per strade diverse, ravvivarono la devozione per la Madonna del
Rosario con il beato Bartolo Longo a Pompei e per la Madonna Ausiliatrice con s. Giovanni Bosco
a Torino.
Il grande educatore ed innovatore torinese, pose la sua opera di sacerdote e fondatore sin dall’inizio,
sotto la protezione e l’aiuto di Maria Ausiliatrice, a cui si rivolgeva per ogni necessità, specie
quando le cose andavano per le lunghe e s’ingarbugliavano; a Lei diceva: "E allora incominciamo a
fare qualcosa?". S. Giovanni Bosco, nato il 16 agosto 1815 presso Castelnuovo d’Asti e ordinato
sacerdote nel 1841, fu il più grande devoto e propagatore del culto a Maria Ausiliatrice, la cui festa
era stata istituita sotto questo titolo e posta al 24 maggio, qualche decennio prima, dal papa Pio VII
il 24 maggio 1815, in ringraziamento a Maria per la sua liberazione dalla ormai quinquennale
prigionia napoleonica.
Il grande sacerdote, apostolo della gioventù, fece erigere in soli tre anni nel 1868, la basilica di
Maria Ausiliatrice nella cittadella salesiana di Valdocco – Torino; sotto la Sua materna protezione
pose gli Istituti religiosi da lui fondati e ormai sparsi in tutto il mondo: la Congregazione di S.
Francesco di Sales, sacerdoti chiamati normalmente ‘Salesiani di don Bosco’; le ‘Figlie di Maria
Ausiliatrice’ suore fondate con la collaborazione di s. Maria Domenica Mazzarello e per ultimi i
‘Cooperatori Salesiani’ per laici e sacerdoti che intendono vivere lo spirito di ‘Don Bosco’, come è
generalmente chiamato.
Le Congregazioni sono così numerose, che si vede con gratitudine la benevola protezione di Maria
Ausiliatrice nella diffusione di tante opere assistenziali ed a favore della gioventù.
Ormai la Madonna Ausiliatrice è divenuta la ‘Madonna di Don Bosco’ essa è inscindibile dalla
grande Famiglia Salesiana, che ha dato alla Chiesa una schiera di santi, beati, venerabili e servi di
Dio; tutti figli che si sono affidati all’aiuto della più dolce e potente delle madri.
Interi Continenti e Nazioni hanno Maria Ausiliatrice come celeste Patrona: l’Australia cattolica dal
1844, la Cina dal 1924, l’Argentina dal 1949, la Polonia fin dai primi decenni del 1800,
diffusissima e antica è la devozione nei Paesi dell’Est Europeo.
Nella bella basilica torinese a Lei intitolata, dove il suo devoto figlio s. Giovanni Bosco e altre
figure sante salesiane sono tumulate, vi è il bellissimo e maestoso quadro, fatto eseguire dallo stesso
fondatore, che rappresenta la Madonna Ausiliatrice che con lo scettro del comando e con il
Bambino in braccio, è circondata dagli Apostoli ed Evangelisti ed è sospesa su una nuvola, sullo
sfondo a terra, il Santuario e l’Oratorio come appariva nel 1868, anno dell’esecuzione dell’opera del
pittore Tommaso Lorenzone.
Il significato dell’intero quadro è chiarissimo; come Maria era presente insieme agli apostoli a
Gerusalemme durante la Pentecoste, quindi all’inizio dell’attività della Chiesa, così ancora Lei sta a
protezione e guida della Chiesa nei secoli, gli apostoli rappresentano il papa ed i vescovi.
Maria è la “Madre della Chiesa”; Ausiliatrice del popolo cristiano nella sua continua lotta per la
diffusione del Regno di Dio» (ANTONIO BORRELLI).
BIBLIOGRAFIA
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– Incontro con i giovani, Salerno 26 maggio 1985
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ARTICOLI VARI
BIBLIOGRAFIA
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– Omelia, 31-5-2016.
S. Ambrogio, Commento sul salmo 118. Discorso 12, 12-15
COMMENTI
«“Credente non è chi ha creduto una volta per tutte, ma chi, in obbedienza al participio presente del verbo, rinnova il suo credo continuamente” (Erri De Luca). Quando raccontava la sua conversione Chateaubriand, nella sua opera più celebre, Il genio del cristianesimo (1802), usava semplicemente due verbi: j’ai pleuré et j’ai cru, “ho pianto e ho creduto”. Certo, c’è la via di Damasco per san Paolo e per molti; ma questa epifania folgorante dev’essere solo un inizio, altrimenti si trasforma in un mero evento spettacolare o taumaturgico. Ha, quindi, ragione Erri De Luca, uno scrittore ben noto ai lettori di questo giornale che non di rado ha ospitato alcuni suoi testi, quando definisce l’autentico credente. Emblematico è appunto il participio presente che incarna una continuità e non un atto singolo. Quando Elisabetta saluta Maria, la madre di Gesù venuta in visita nella sua casa, la interpella così: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore” (Luca 1,45). Ebbene, se noi esaminiamo l’originale greco, scopriamo un participio che indica uno stato permanente «Beata la credente!». L’odierna festa liturgica della Visitazione contiene, allora, al suo interno anche questo messaggio: credere non è tanto un atto eroico ed eccezionale, compiuto una volta per sempre; è, invece, una scelta quotidiana, coi colori dell’ordinario e persino della paziente fedeltà. Ne sa appunto qualcosa Maria che deve seguire suo figlio prima nel grigiore dei giorni nascosti e sempre uguali di Nazaret e poi in mezzo alla folla che lo segue, fino a raggiungerlo sulla vetta della prova e del distacco, nell’addio struggente del Calvario. Maria è credente nel cuore e nelle opere anche quando s’inerpica verso la casa di Elisabetta per esserle accanto, mentre la parente compie la gestazione faticosa del figlio Giovanni» (Gianfranco Ravasi, Mattutino. Participio presente, 31-5-2011).
Elisabetta, appena Maria giunge nella sua casa, la saluta e tesse di lei questo elogio: «Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore». È la lode più grande che si può fare della Vergine, considerata nella sua condizione di creatura che entra in contatto con Dio. La fede, mediante la quale crede in Dio e si mette in ascolto della sua parola, è la risposta, che, come creatura, dà liberamente al Creatore; il resto in lei è tutto dono di Dio, che l’ha voluta rendere la piena di grazia, per la missione che doveva svolgere di stare accanto al Figlio nell’opera di salvezza dell’umanità. Lo stesso Gesù, indirettamente, tesse di lei lo stesso elogio, quando la donna tra la folla osannò alla sua madre: «Beato il ventre che ti ha portato e il petto che ti ha nutrito». Gesù, senza negare ciò, afferma che sua Madre è grande soprattutto per la fede: «beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica». L’evangelista S. Luca commenta così quanto successe a Betlem: «Maria serbava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore (Lc 2, 19)». È un piccolo ma grande squarcio nell’interiorità della Vergine Maria, che cerca di alimentare la sua vita spirituale con una fede profonda che la mette in intimo colloquio con il suo Dio. È un grande esempio per noi, che impariamo così ad alimentare la nostra devozione mariana con l’imitazione di Maria nella ricerca costante di Dio.
Il mese della devozione dei cristiani a Maria si conclude con la festa liturgica che ricorda la visita della Vergine a santa Elisabetta. L’episodio è narrato dall’evangelista Luca che in questo modo mette in relazione la storia di Giovanni Battista con quella di Gesù, la storia di Elisabetta, l’ultima delle figlie di Israele che attende un figlio in tarda età, con la storia della figlia di Sion del tempo nuovo. L’iniziativa è presa da Maria. Dopo aver pronunciato il suo sì, ella va verso gli alti monti, verso la Giudea. Vengono in mente i viaggi di Abramo quando Dio gli ordina di abbandonare la sua terra, o di salire verso il monte Moira per sacrificare Isacco. Più tardi ci sarà anche questo nella vita di Maria. Ora, invece, la Vergine va con passo lieve di gioia, desiderosa di comunicare il gaudio che porta nel cuore. Giunta da Elisabetta, è preceduta dalla cugina che intuisce di avere davanti a sé la speranza di Israele: «Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo!». E questo riconoscimento è confermato dal fremito di gioia di Giovanni nel grembo della madre. Sorpresa, Maria è costretta a cambiare quello che voleva essere un annuncio in un inno di lode a Dio. È il magnificat, che annuncia il nuovo corso della storia, la fine delle ingiustizie e la nascita di un mondo nuovo. Risuona l’eco delle beatitudini per le quali i poveri, i miti, i sofferenti, in un parola gli imitatori d’ogni tempo di Gesù ringraziano Dio per la sua fedeltà che ha operato tali prodigi. Restano la sofferenza e il dolore, ma sono abbracciati nella gioia cristiana «che dà al cuore un’apertura cattolica sul mondo degli uomini» (Paolo VI).
BIBLIOGRAFIA
BENEDETTO XVI, Udienza generale, 31-1-2007.
FONTI
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STUDI VARI
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Pio XII, Lett. Ap. Exulta Lusitania felix, 16-1-1946.
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– Omelia 12-9-1982.
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Benedetto XVI, Udienza generale, 10-2-2010.
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https://www.santantonio.org/it
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Martire della carità
I suoi genitori – Ferrante Gonzaga, marchese di Castiglione delle Stiviere presso Mantova e donna Marta, nata contessa di Santena in Piemonte – si conoscono alla corte di Filippo II e si sposano a Madrid nel 1566. Lui nasce dopo due anni a Castiglione e il padre è fiero del suo primogenito dotato di intelligenza viva e aperta. La vita di corte, tuttavia, alla quale è costretto fin dalla prima infanzia a Castiglione, a Mantova, a Firenze, a Madrid non entusiasma il giovane che, sotto la guida della mamma, coltiva l’ideale di seguire Cristo povero tra i poveri. Di qui la decisione di rifiutare il marchesato. Il padre è contrario, ma si deve arrendere di fronte alla ferma determinazione del figlio che nel novembre del 1585 firma solennemente a Mantova l’atto di rinuncia. Il mese successivo Luigi è già a Roma dove ottiene l’ammissione al noviziato dei gesuiti a sant’Andrea al Quirinale. Negli anni di preparazione ai voti approfondisce le ragioni della sua scelta. Nello spirito di sant’Ignazio, vuole abbandonarsi completamente alla volontà di Dio nel servizio ai poveri, ai sofferenti. Nel 1588 riceve gli ordini minori a San Giovanni in Laterano e l’anno successivo ritorna a casa. Per il piacere di visitare la famiglia, ma soprattutto per mettere pace tra suo fratello e il duca di Mantova. Riesce nell’impresa e lascia dietro di sé grande rimpianto. Nel 1591 a Roma scoppia la peste. Luigi è il primo a offrirsi volontario. Per la sua fragile salute gli consigliano di risparmiarsi, ma quando incontra un appestato abbandonato sulla strada, se lo carica sulle spalle e lo porta all’ospedale. Muore il 21 giugno, martire della carità.
Dalla «Lettera alla madre» di san Luigi Gonzaga (Acta SS., giugno, 5, 878)
Canterò senza fine le grazie del Signore
Io invoco su di te, mia signora, il dono dello Spirito Santo e consolazioni senza fine. Quando mi hanno portato la tua lettera, mi trovavo ancora in questa regione di morti. Ma facciamoci animo e puntiamo le nostre aspirazioni verso il cielo, dove loderemo Dio eterno nella terra dei viventi. Per parte mia avrei desiderato di trovarmici da tempo e, sinceramente, speravo di partire per esso già prima d’ora. La carità consiste, come dice san Paolo, nel «rallegrarsi con quelli che sono nella gioia e nel piangere con quelli che sono nel pianto». Perciò, madre illustrissima, devi gioire grandemente perché, per merito tuo, Dio mi indica la vera felicità e mi libera dal timore di perderlo. Ti confiderò, o illustrissima signora, che meditando la bontà divina, mare senza fondo e senza confini, la mia mente si smarrisce. Non riesco a capacitarmi come il Signore guardi alla mia piccola e breve fatica e mi premi con il riposo eterno e dal cielo mi inviti a quella felicità che io fino ad ora ho cercato con negligenza e offra a me, che assai poche lacrime ho sparso per esso, quel tesoro che è il coronamento di grandi fatiche e pianto. O illustrissima signora, guardati dall’offendere l’infinita bontà divina, piangendo come morto chi vive al cospetto di Dio e che con la sua intercessione può venire incontro alle tue necessità molto più che in questa vita. La separazione non sarà lunga. Ci rivedremo in cielo e insieme uniti all’autore della nostra salvezza godremo gioie immortali, lodandolo con tutta la capacità dell’anima e cantando senza fine le sue grazie. Egli ci toglie quello che prima ci aveva dato solo per riporlo in un luogo più sicuro e inviolabile e per ornarci di quei beni che noi stessi sceglieremmo. Ho detto queste cose solo per obbedire al mio ardente desiderio che tu, o illustrissima signora, e tutta la famiglia, consideriate la mia partenza come un evento gioioso. E tu continua ad assistermi con la tua materna benedizione, mentre sono in mare verso il porto di tutte le mie speranze. Ho preferito scriverti perché niente mi è rimasto con cui manifestarti in modo più chiaro l’amore ed il rispetto che, come figlio, devo alla mia madre.
BIBLIOGRAFIA
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TESTI VARI
Testi vari su san Thomas More da scaricare
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– Udienza generale, 8-10-2008 (La relazione con il Gesù storico) (pre-pasquale)
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FRANCESCO, Omelia 16-5-2013;
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• Omelia 1-6-2017;
• Omelia, 20-4-2018;
• Omelia 9-10-2018
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«Nato da donna, nato sotto la legge»: il Natale secondo san Paolo, in La Civiltà Cattolica 172 (2021), 4, pp. 417-422.
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Rivista Paulus, mensile della Società San Paolo, diretta da Primo Gironi.
www.paulusweb.net
BIBLIOGRAFIA
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COMMENTI
ROBERTO BERETTA, Tommaso non mise il dito nella
piaga,
in Avvenire, 6-6-2009, p. 25
Agiografia. Il Vangelo non dice che l’apostolo toccò il costato di
Cristo, anzi proprio il contrario…Una nuova lettura dei testi e delle
immagini
Tutto gira intorno a quel dito: ha toccato oppure no il
corpo risorto di Cristo? Perché in effetti, anche se la maggioranza sarebbe
disposta a giurarlo, i Vangeli non lo dicono proprio: «Poi Gesù – scrive
Giovanni – disse a Tommaso: ‘ Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani;
stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma
credente!» . Ma l’apostolo diffidente non ebbe poi bisogno di mettere in
pratica l’invito, per esprimere la sua professione di fede: «Mio Signore e mio
Dio!», aggiunge infatti il Vangelo. Al che fa seguito la conclusione del
Maestro: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo
visto crederanno!» . «Perché mi hai veduto»: non «perché mi hai toccato» … E
proprio dallo smascheramento dell’equivoco muove Glenn W. Most, professore di
Filologia greca alla Normale di Pisa, per seguire Il dito nella piaga,
intrigante nel suo indagare tra esegesi, apocrifi e iconografia. Ma è poi così
importante sapere se l’apostolo abbia davvero toccato la piaga del costato del
Crocifisso, oppure si sia limitato a cedere all’evidenza di un morto
resuscitato che stava davanti a lui e gli parlava? Sì, se è vero – come il
grecista Most dimostra – che tutto il capitolo 20 di Giovanni ( il testo su cui
si fonda il mito dell’incredulità di Tommaso) è imbastito intorno a una sottile
simmetria contrappositiva tra la prima e la seconda parte, tra una donna che ha
creduto subito e un uomo incredulo ad oltranza, tra l’emozione e la ragione, insomma
tra la Maddalena cui fu interdetto persino il semplice « toccare » ( Noli me
tangere…) e Tommaso invitato invece a mettere la mano intera nella
ferita. «Giovanni – così sunteggia la sua tesi l’autore – decide di
concentrare tutta la complessa questione della fede in Gesù nel rapporto tra
vedere e credere»; non per nulla in quel capitolo 20, su 31 versetti sono
presenti ben 13 forme del verbo «vedere» e 8 per «credere» . Il «toccare» non
serve, o meglio così sembra anche leggendo i Vangeli sinottici; nei quali ad
esempio – per dare una prova della sua esistenza materiale ai discepoli che non
osavano toccarlo – Gesù domanda da mangiare. Solo Tommaso sembra voler andare
oltre, chiedendo inizialmente – anzi pretendendo in modo persino blasfemo – di
«mettere il dito nel posto dei chiodi». Poi però, giunto al dunque, non lo fa,
tanto che per «supporre che Tommaso abbia effettivamente toccato Gesù significa
non solo fraintendere un particolare del racconto di Giovanni, ma anche il
contenuto più profondo e vitale del suo messaggio. Quello cioè che non solo non
è indispensabile «toccare per credere», ma non è necessario nemmeno vedere:
«Beati quelli che pur non avendo visto…» . Dal tatto alla vista, all’udito:
ecco la salita che porta allo «status più nobile» della fede. Infatti a chi si
deve in primis il travisamento di Tommaso come l’uomo che effettivamente
mise il dito nella piaga? Agli «eretici», ovvero gli apocrifi di sapore
gnostico ( sono almeno 5 quelli intitolati al discepolo il cui nome significa «
gemello » ) per i quali Tommaso rappresenta appunto la perfetta incarnazione di
una fede raggiungibile per via razionale – « toccabile » – da una élite di
pochi adepti e con un sovrano disprezzo per la materia ( il corpo). Si può
dunque ipotizzare che fu anche l’intento cattolico di reagire alla
spiritualizzazione operata dagli gnostici a sospingere la devozione popolare
(ma anche i Padri della Chiesa e la Scolastica, da Tertulliano all’Aquinate,
con sporadiche eccezioni) verso il convincimento che Tommaso toccò davvero la
carne di Cristo. Ma poi di mezzo ci sono stati soprattutto i pittori, e
Caravaggio su tutti; furono loro a veicolare nell’immaginario comune l’idea del
dito nella piaga. Tuttavia, se dal IV secolo fino al Rinascimento la
trascrizione iconografica dell’episodio ha sempre avuto alcuni canoni fissi (
inserimento in un ciclo di altre immagini sacre, rappresentazione dei
personaggi a figura intera) che tendono a relativizzare il gesto singolo, con
la sua « Incredulità di san Tommaso » il pittore lombardo non solo ha
sovvertito i modelli tradizionali – i soggetti sono ripresi infatti in piano
americano e l’impianto non è certo devoto –, ma anche trasforma l’atto
dell’apostolo in modo brutale, quasi rendendolo un’invasiva ispezione medica,
addirittura – sostiene– « uno stupro » .Quale il motivo? A parte ritrovarne
alcuni stilemi nella pittura « protestante » nordica, l’autore sostiene che «
il quadro ribadisce risolutamente la fisicità del miracolo di Tommaso contro
chi tendeva a dubitarne ( per esempio i riformati tedeschi) » , ma allo stesso
tempo prende atto di una fede – quella Controriformistica – che non sa più
credere senza toccare, o almeno vivamente immaginare di toccare.« Tutte queste
ferite – scrisse del resto san Carlo Borromeo in un’omelia dedicata appunto a
san Tommaso – sono in effetti come molti squarci e il Signore vuole che
penetriamo in essi, se vogliamo leggere » . Caravaggio avvicina carnalmente il
dubbio di Tommaso a noi, ai nostri dubbi; però potrebbe pure indurre a un
errore: quello proverbiale dello stolto che si sofferma a fissare il dito
mentre il saggio indica la luna.
Glenn W. Most, Il dito nella piaga. Le storie di Tommaso l’Incredulo
Einaudi. Pagine 230. Euro 22,00. L’episodio narrato da Giovanni è costruito
sulla scala di merito della fede: dal «toccare» al «vedere» e al «credere». Poi
Caravaggio e la Controriforma cambiano i canoni tradizionali
Elio Guerriero, S. Tommaso apostolo. L’incredulo
credente, in Avvenire
03/07/2011
«Si
potrebbe quasi pensare che Giovanni abbia introdotto nel Vangelo Tommaso come
“tipo di tutti noi”. A Tommaso noi dobbiamo le splendide parole di
Cristo di cui non potremmo fare a meno; parole che proprio a lui, a noi sono
state dette» (R. Pesch). Di Tommaso il gemello parla soprattutto l’evangelista
Giovanni, in riferimento alla parte conclusiva della vita di Gesù.
Allontanatosi dalla Giudea perché minacciato, il Maestro decide di tornarvi per
la morte di Lazzaro e «affinché voi crediate». Di fronte allo sconcerto
generale, prende la parola Tommaso: «Andiamo anche noi a morire con lui!».
Parole piene di audacia, ma troppo sicure di sé, come quelle di Pietro
nell’ultima cena. Ritroviamo Tommaso durante i discorsi di addio. Dice Gesù:
«Del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli risponde Tommaso: «Signore, non
sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via?». La replica del Maestro:
«Io sono la via, la verità e la vita». Poi, nella sera del giorno dopo Pasqua,
l’apparizione del Risorto ai discepoli nell’assenza, che si rivela provvidenziale,
di Tommaso che vuole vedere e toccare. Di qui il rimprovero di Gesù e la
promessa, tramite Tommaso rivolta a noi: «Beati quelli che non hanno visto e
hanno creduto». Infine, nella pesca sul lago di Tiberiade, troviamo Tommaso
l’incredulo al fianco di Simone che ha rinnegato. Il Nuovo Testamento non ha
particolare riguardo per i suoi santi. La loro debolezza è sottolineata a
sostegno della nostra fede. Come noi, essi hanno bisogno della conferma di
Gesù. Secondo una tradizione fondata, Tommaso annunciò il Vangelo in Persia e
in India dove avrebbe subito il martirio.
Gesù si presenta in mezzo ai discepoli
radunati nel cenacolo. Non c’è Tommaso. E non ci sono tutti gli uomini e le
donne, tra i quali noi, che da quel giorno in poi avrebbero ricevuto l’annuncio
del Vangelo della resurrezione. Tommaso non crede alle parole degli altri
discepoli. È impossibile per Tommaso – e non solo per lui – che dai luoghi di
morte possa nascere la vita; inconcepibile che un crocifisso possa tornare
vivo. La domenica successiva Gesù ritorna e di nuovo dà loro il saluto di pace.
Quindi dice a Tommaso: «Non essere più incredulo, ma credente» e lo esorta a
mettere il dito nelle piaghe e la mano nella ferita del costato. A questo punto
il discepolo si getta in ginocchio e professa la sua fede: «Signore mio e Dio
mio!». Non è Tommaso che tocca il corpo ferito di Gesù, sono piuttosto le
parole di Gesù che toccano il cuore di Tommaso e lo commuovono. Forse un po’ di
Tommaso è presente in ognuno di noi, è presente in chi ha difficoltà e dubbi, è
presente in chi soffre per non riuscire a credere, è presente in chi prova
dolore per l’impossibilità d’amare, è presente in chi fatica a sperare. Ma
tutto ciò in qualche modo avvicina alla fede. Gesù continua a tornare, di
domenica in domenica, e a dirci: «Beati coloro che hanno creduto senza vedere».
Bastano le sue parole per credere, purché ci lasciamo toccare il cuore.
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COMMENTI
Maria Maddalena è tra le donne che con i Dodici seguono Gesù e l’assistono con i loro beni (Lc 8, 2-3). Essa si accompagna a Gesù nell’ultimo viaggio verso Gerusalemme ed è ai piedi della croce assieme alla Madonna (Mt 27, 55; Gv 19, 25) ed è tra i pochi ad assistere alla frettolosa sepoltura, curata da Nicodemo (Gv 19, 28-42). È stata la prima testimone della risurrezione del Signore, privilegiata da Gesù, forse per la dedizione avuta nei suoi confronti e il coraggio dimostrato nell’accompagnarlo sul Calvario. Nel racconto dell’apparizione del Risorto vediamo emergere i caratteri forti di questa donna e il forte legame con Gesù. Non soddisfatta degli onori funebri resi a Gesù, essa, sul far del mattino del giorno dopo il sabato, va al sepolcro per rendere onori più solenni al corpo del maestro tanto amato. È la prima testimone della tomba vuota e del primo annunzio agli apostoli, anche se ancora non è l’annunzio di risurrezione. L’amore verso il Signore è così forte che le parole proferite sono sempre in prima persona: «Il mio Signore; non so dove l’hanno posto; io andrò a prenderlo». Quando si instaura un vero rapporto di fede e di amore con il Signore, ci si sente come se per Dio esistessimo solo noi. Ella ha ancora lacrime da versare dinanzi alla tomba vuota, ma non si arrende, cerca e si informa dal presunto giardiniere: «Dimmi dove lo hai posto». È la donna coraggiosa, decisa, intraprendente: «Io andrò a prenderlo». Deve trovare a tutti i costi il Signore. La fede e l’amore danno il coraggio della testimonianza: è stato così in tutta la storia della Chiesa. Schiere infinite di discepoli hanno cercato e seguito il Signore senza mai arrendersi dinanzi agli ostacoli. Per questa sua fede forte e generosa ella ha ricevuto il dono del primo annuncio pasquale. È lei, non Pietro e Giovanni (Gv 20, 5-8), a vedere nella tomba vuota gli angeli; è lei che vede per primo il Signore; è lei la prima ad essere inviata come testimone della risurrezione: «Va’ dai miei fratelli…». Il primo annunzio della risurrezione è stato affidato ad una donna e non agli Apostoli. Ce lo spieghiamo con il fatto che la testimonianza è obbligo di tutti i credenti; gli apostoli e i loro successori testimoniano in quanto credenti; la loro peculiarità sta nel particolare servizio che è loro affidato per continuare l’opera di salvezza di Cristo. Spesso si discute sul sacerdozio alle donne, credendo una discriminazione per le donne il fatto che nella Chiesa esso sia riservato ai soli uomini. Anche se il sacerdozio è importante, la vita della Chiesa ha tanti aspetti ed è composta di tanti ruoli, tutti dignitosi.
BIBLIOGRAFIA
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BENEDETTO XVI, Udienza generale, 27-10-2010
COMMENTI
Nel tardo Medioevo, sia in campo civile che in quello ecclesiastico, gli uomini si dilaniavano in lotte intestine, provocando guerre tra gli Stati e scismi nella Chiesa e mettendo a rischio la stessa sopravvivenza della civiltà cristiana, davanti al pericolo
sempre incombente dei musulmani. Dio allora suscitò donne come santa Brigida di Svezia e santa Caterina da Siena, contemporanee, che con il loro carisma cercarono di pacificare gli animi e di ricostruire l’unità della Chiesa, dando un contributo, sotto certi aspetti determinante, alla civiltà europea.
E giustamente sia s. Brigida patrona della Svezia (1303-1373), sia s. Caterina da Siena compatrona d’Italia (1347-1380), sono state proclamate compatrone dell’Europa, insieme a S.Benedetto da Norcia (470-547).
ARTICOLI VARI SU SANTA BRIGIDA
BIBLIOGRAFIA
BENEDETTO XVI, Udienza generale, 21-6-2006.
– Omelia, Santiago de Compostela, 6-11-2010.
Aiello Arturo, Sulla strada percorsa dai Santi, in Messa meditazione 2023, luglio-agosto, pp. 211-212.
Fabris Rinaldo, Giacomo (figlio di), in Barbaglio Giuseppe (a cura di), Schede bibliche pastorali, I vol., EDB, Bologna 2014, coll. 1636-1642.
– Giacomo (lettera di), in Barbaglio Giuseppe (a cura di), Schede bibliche pastorali, I vol., EDB, Bologna 2014, coll. 1642-1654.
COMMENTI
Poiché San Giacomo fu il primo degli apostoli a subire il martirio, il testo evangelico ne parla ricorrendo all’immagine del calice da bere. La sequela di Gesù implica la partecipazione alla sua passione dolorosa e il discepolo deve essere consapevole di cosa sceglie. Il racconto si conclude con un altro «detto» di Gesù: quello sul Figlio dell’uomo, «che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti». Fa da sfondo, in questo caso, la figura del «Servo del Signore» di Is 53,10-12, ma il senso vero lo scopriamo nella morte sulla Croce di Gesù. Per Lui «servire» significa essere fedele al progetto del Padre e fare a noi il dono della vita. Da questo gesto di amore assoluto s’inaugura una storia di libertà, nella quale dobbiamo lasciarci coinvolgere. Il miglior commento che unisce i due «detti» del Signore sta nelle sue parole durante l’ultima cena. Gesù prese il calice, rese grazie e lo diede ai discepoli, dicendo: «Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati» (Mt 26,28). Tutto si capisce a partire dall’Eucaristia!
Gesù prese disparte i dodici discepoli e lungo il cammino disse: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso, e il terzo giorno risorgerà».
Allora gli si avvicinò la madre dei figli di Zebedèo con i suoi figli e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli le disse: «Che cosa vuoi?». Gli rispose: «Di’ che questi miei due figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno». Rispose Gesù: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?». Gli dicono: «Lo possiamo». Ed egli disse loro: «Il mio calice, lo berrete; però sedere alla mia destra e alla mia sinistra non sta a me concederlo: è per coloro per i quali il Padre mio lo ha preparato».
Gesù chiama i sui discepoli a seguirlo. Come i discepoli, anche noi non sempre capiamo il disegno di amore del Signore per la nostra vita e cerchiamo una sistemazione, un ruolo. L’episodio narrato da Matteo circa la richiesta di avere un posto alla destra di Gesù è significativo. L’incontro con Gesù risorto e l’accoglienza dello Spirito Santo nel proprio cuore hanno reso molti discepoli testimoni del Vangelo, fino al martirio. Hanno bevuto lo stesso calice bevuto da Gesù. La vita diventa dono pieno, facendo quanto ci è chiesto dal Signore.
CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI
DECRETO
sulla celebrazione dei Santi Marta, Maria e Lazzaro,
nel Calendario Romano Generale
Nella casa di Betania il Signore Gesù ha sperimentato lo spirito di famiglia e l’amicizia di Marta, Maria e Lazzaro, e per questo il Vangelo di Giovanni afferma che egli li amava. Marta gli offrì generosamente ospitalità, Maria ascoltò docilmente le sue parole e Lazzaro uscì prontamente dal sepolcro per comando di Colui che ha umiliato la morte.
La tradizionale incertezza della Chiesa latina circa l’identità di Maria – la Maddalena a cui Cristo apparve dopo la sua resurrezione, la sorella di Marta, la peccatrice a cui il Signore ha rimesso i peccati – che decise l’iscrizione della sola Marta il 29 luglio nel Calendario Romano, ha trovato soluzione in studi e tempi recenti, come attestato dall’odierno Martirologio Romano che commemora in quello stesso giorno anche Maria e Lazzaro. Inoltre, in alcuni Calendari particolari i tre fratelli sono celebrati insieme in tale giorno.
Pertanto, considerando l’importante testimonianza evangelica da essi offerta nell’ospitare in casa il Signore Gesù, nel prestargli ascolto cordiale, nel credere che egli è la risurrezione e la vita, accogliendo la proposta di questo Dicastero, il Sommo Pontefice Francesco ha disposto che il 29 luglio figuri nel Calendario Romano Generale la memoria dei santi Marta, Maria e Lazzaro.
Con questa denominazione la memoria dovrà pertanto figurare in tutti i Calendari e Libri liturgici per la celebrazione della Messa e della Liturgia delle Ore; le variazioni e le aggiunte da adottare nei testi liturgici, allegate al presente decreto, devono essere tradotte, approvate e, dopo la conferma di questo Dicastero, pubblicate a cura delle Conferenze Episcopali.
Nonostante qualsiasi cosa in contrario.
Dalla sede della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, 26 gennaio 2021, memoria dei Santi Timoteo e Tito, vescovi.
Robert Card. Sarah
Prefetto
X Arthur Roche
Arcivescovo Segretario
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DEDICAZIONE DELLA BASILICA DI SANTA MARIA MAGGIORE
COMMENTI
Il cardinale Law ricorda un evento caro ai romani
La nevicata miracolosa a Santa Maria Maggiore
di Nicola Gori
Duemilacinquecento petali di dalie bianche che cadono lentamente dal soffitto della basilica di Santa Maria Maggiore per ricordare la miracolosa nevicata del 5 agosto 358 sull’Esquilino, come segno, tanto atteso da Papa Liberio, per capire dove avrebbe dovuto costruire una chiesa in onore della Vergine. Così come ogni anno, nel giorno della dedicazione della basilica, mercoledì 5 agosto, si rinnova lo spettacolo della neve d’estate a Roma. Quest’anno luci e raggi laser illuminano la finta nevicata, ottenuta con i petali sparati da macchine usate nel cinema, al centro della piazza, mentre orchestre e cantanti lirici eseguono brani tratti dal Messia di Haendel. I romani partecipano sempre numerosi alla festa della neve a Santa Maria Maggiore, poiché è uno tra i templi a loro più cari. Ne abbiamo parlato con il cardinale Bernard Francis Law, arciprete della basilica Liberiana, il quale nell’intervista a “L’Osservatore Romano”, offre alcuni dettagli per conoscere meglio questo tempio in cui si venera la Salus populi romani.
Ricorre la dedicazione della basilica di Santa Maria Maggiore. Quali sono le origini di questa chiesa?
La basilica è una celebrazione della fede della Chiesa che Maria è veramente Madre di Dio, verità definita durante il concilio di Efeso del 431. Situata sulla sommità dell’Esquilino è una delle quattro basiliche papali. L’unica che ha conservato una struttura più simile all’originaria. Secondo un’antichissima tradizione, la Vergine Maria apparve in sogno al romano Papa Liberio (352-366) e al patrizio Giovanni nell’anno 358, chiedendo la costruzione di una chiesa a lei dedicata nel luogo dove sarebbe nevicato. La mattina del 5 agosto, il colle Esquilino si trovò ricoperto di neve e Papa Liberio tracciò così il perimetro del nuovo tempio, mentre il patrizio Giovanni provvide a finanziarne la costruzione. Di questo edificio sacro primitivo non rimane niente, se non una menzione nel Liber Pontificalis, dove si afferma che Papa Liberio Fecit basilicam nomini suo iuxta Macellum Liviae. Anche gli scavi effettuati sotto la basilica hanno portato alla luce resti di mura romane e importanti testimonianze archeologiche, ma nessuna traccia dell’antica chiesa. Sul luogo dell’originaria cappella, Sisto iii per celebrare la proclamazione del dogma della Madre di Dio, la Theotòkos, definito nel concilio di Efeso del 431, volle edificare l’attuale basilica. Fu così che nel 432 fece innalzare la chiesa sullo stesso luogo della cappella liberiana. Una particolarità di questa basilica è di essere particolarmente amata dai cristiani orientali, sia cattolici, sia ortodossi, perché porta il titolo della Theotòkos. Come diceva Giovanni Paolo II, la Chiesa deve respirare con i due polmoni: quello occidentale e quello orientale. E Santa Maria Maggiore è un esempio di quanto ciò si possa realizzare.
Nella basilica si venera l’icona della Salus populi romani.
La basilica stessa è un’icona di Maria, della sua bellezza, del suo ruolo fondamentale nella storia della salvezza. L’icona principale venerata è quella della Salus populi romani. Vi è un grande legame affettivo tra i cittadini di Roma e questa Madonna. Benedetto dopo aver preso possesso della cattedrale di Roma, San Giovanni in Laterano, ha sostato in preghiera davanti all’immagine della Vergine per esprimere che è membro di questa Chiesa romana. Originariamente l’icona, che secondo un’antica tradizione sarebbe stata dipinta da san Luca, non si trovava dove è attualmente, ma era collocata su di una colonna all’interno della basilica. Solo dopo la costruzione della cappella Borghese o paolina negli anni 1606-1612 voluta da Paolo v, vi venne trasferita. A ricordo di questo evento, ogni anno, nell’ultima domenica di gennaio viene celebrata una festa. Per sottolineare il legame con Roma, io invito il vicario generale di Sua Santità per la diocesi e rappresentanti del Comune che offrono un dono alla Vergine.
Si può definire Santa Maria Maggiore un santuario?
Persone di ogni parte del mondo vengono in basilica a pregare. Possono partecipare alle celebrazioni eucaristiche quotidiane: al mattino, dalle 7 alle 12, mentre nel pomeriggio, alle 18. Da lunedì al venerdì vi è poi l’adorazione eucaristica, che si conclude con i vespri. Oltre a questi appuntamenti fissi, vi sono altre messe durante il giorno, in quanto la basilica accoglie molti gruppi di fedeli, guidati da vescovi o sacerdoti, che vengono in pellegrinaggio. La nostra chiesa non è solo importante per la venerazione a Maria, ma abbiamo numerose reliquie e alcuni Papi vi sono sepolti, tra i quali, san Pio v e Paolo v. Conserviamo il corpo di san Geronimo sotto l’altare maggiore, ma la reliquia più importante è la culla di Gesù. Quando venne portata dalla Terra Santa a Roma fu scelto di collocarla in Santa Maria Maggiore, dove si celebra il mistero dell’Incarnazione. Non vi fu migliore decisione!
Quante persone lavorano nella basilica per assicurare il servizio ai fedeli?
Come nelle altre basiliche papali, il fulcro è costituito dalla presenza di un capitolo. Vi sono poi gli addetti alla sacrestia, i frati francescani dell’Immacolata; le suore serve di Maria addolorata di Chioggia che si occupano delle suppellettili degli altari e i domenicani ai quali è affidato il ministero delle confessioni. Vi è inoltre la cappella musicale liberiana, attualmente diretta da monsignor Valentino Miserachs Grau. Da ricordare anche il museo inaugurato nel 2001, dove sono esposti gli oggetti più preziosi della basilica. Tra le diverse opere ci sono quadri di Giovanni Bazzi, detto il Sodoma e di Domenico di Jacopo di Pace, detto il Beccafumi; un manoscritto della messa “La Stella” di Domenico Scarlatti, un autografo di Pierluigi da Palestrina e il celebre presepe di Arnolfo di Cambio.
(©L’Osservatore Romano – 6 agosto 2009)
Dedicazione basilica di Santa Maria Maggiore
Una maternità divina
«Ti salutiamo, o Maria, Madre di Dio, venerabile tesoro di tutta la terra, lampada inestinguibile, corona della verginità, scettro della dottrina, tempio indistruttibile, abitacolo di Colui che non può essere circoscritto da nessun luogo, madre e vergine insieme» (Cirillo di Alessandria). Il secondo grande concilio della storia cristiana si tenne a Efeso nel 431. Guidato da Cirillo di Alessandria, stabilì che alla Vergine Maria spetta il titolo di Theotòkos, madre di Dio. Non era una definizione di poco conto. Attraverso il titolo riconosciuto a Maria, si proclamava che fin dalla nascita Gesù è il Figlio di Dio, quello stesso che è stato generato dal Padre fin dall’eternità. I cristiani compresero l’importanza dell’evento e lo festeggiarono con una grande fiaccolata in onore della Vergine. A Roma, a ricordo della circostanza, il papa Sisto III fece restaurare un’antica Chiesa e la dedicò alla Vergine. Era la basilica di santa Maria Maggiore, nella quale il titolo di Madre di Dio si trova splendidamente illustrato nei mosaici situati sull’arco trionfale del presbiterio. Vi sono rappresentati i misteri connessi con la nascita di Gesù nei quali la divina maternità di Maria trova la sua collocazione all’apice dell’alleanza di Dio con gli uomini. In quest’ottica la maternità di Maria è un dono di grazia di Dio, il quale guarda all’umiltà della sua serva per soccorrere il suo popolo ricordandosi della sua misericordia. Anche la tradizione, secondo la quale a Santa Maria Maggiore è conservata la mangiatoia nella quale venne adagiato Gesù dopo la nascita, ricorda che l’umiltà di Dio è il modo attraverso il quale si manifesta la sua misericordia.
Santa Maria Maggiore Il miracolo della neve
È il nome della più grande Basilica Romana (detta appunto “maggiore”), eretta in onore della Vergine Santa sulla sommità dell’Esquilino da papa Liberio, verso la metà del IV secolo. Fu successivamente restaurata e ingrandita da papa Sisto III, in ricordo del titolo «Madre di Dio», approvato dal Concilio di Efeso nell’anno 431. È la più antica Chiesa dedicata in Occidente alla Vergine Maria ed è una delle quattro basiliche patriarcali di Roma. Il mistero della sua Divina Maternità di Maria è debitamente illustrato nei mosaici situati sull’arco trionfale del presbiterio e in quelli che adornano la navata superiore. Inoltre esso è particolarmente sottolineato dalla tradizione sulla «culla di Gesù» (un’antica mangiatoia portata dalla Terra Santa prima del VI secolo) che sarebbe qui conservata. La Basilica è perciò dedicata a «Sancta Maria ad praesepe». Ma il suo nome più antico sarebbe quello di «Sancta Maria ad Nives» (Madonna della Neve): si racconta, infatti, che la notte del 5 agosto 352 la Santa Vergine avrebbe detto in sogno a papa Liberio di costruire la Basilica là dove, il mattino dopo, avrebbe trovato il terreno coperto di neve. Ricordare questa “devozione” (legata a una miracolosa nevicata fuori stagione) è oggi importante perché c’è stata, in seguito, una decisione della Chiesa che ha raggruppato assieme, in questa data e sotto questo titolo (“Madonna della Neve”), la celebrazione liturgica di molte apparizioni mariane in molti santuari. In Italia i comuni e le frazioni di cui è patrona la Madonna della Neve sono più di un centinaio.
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– Angelus 17-2-2008
– Angelus 28-2-2010.
– Omelia 20-3-2011
– Angelus 20-3-2011
– Angelus ed omelia, 4-3-2012.
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– Angelus 24-2-2013.
FRANCESCO, Angelus, 16-3-2014.
– Omelia, 16-3-2014.
– Angelus, 1-3-2015.
– Angelus, 12-3-2017
– Omelia 12-3-2017
– Angelus 25-2-2018
– Omelia 25-2-2018.
– Angelus 17-3-2019.
– Angelus, 8-3-2020.
– Angelus 28-2-2021.
– Omelia, 12 marzo 2022
– Angelus, 13 marzo 2022
– Angelus, 5-3-2023
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Nacque nel 1170 a Caleruega, nella Vecchia Castiglia, dalla nobile famiglia dei Guzmán. Avviato agli studi, compì brillantemente l’intero tirocinio filosofico e teologico, fino a diventare canonico della collegiata del Duomo di Osma, una delle più antiche e prestigiose sedi vescovili di Spagna. Accompagnando il suo vescovo in un viaggio verso le terre del Nord si sentì afferrare dalla vocazione missionaria. Si recò a Roma per chiedere al Papa l’autorizzazione per evangelizzare tribù nordiche, ma il pontefice gli indicò invece il sud della Francia, devastato dall’eresia catara. Domenico cominciò, dunque, a percorrere quelle terre, in umiltà e povertà, come un «solitario pellegrino di Cristo». Gli nacque così l’idea di fondare un Ordine di «frati predicatori» che sapessero unire la «grazia della predicazione» (e quindi lo studio e la scienza) con uno stile di vita povero ed evangelico. Appena alcuni discepoli si raccolsero attorno a lui, li inviò subito nelle principali sedi universitarie d’Europa, persuaso che «il buon grano se resta ammassato marcisce, se viene disseminato fruttifica». Diede ai suoi frati delle Costituzioni che sono ancora oggi considerate un capolavoro di sapienza giuridica. Passò gli ultimi anni di vita, dedito soltanto «o a parlare con Dio o a parlare di Dio». Morì a Bologna, la sera del 6 agosto 1221, a soli 51 anni, stremato dalle fatiche apostoliche. Ai suoi frati che facevano corona attorno al suo giaciglio chiese, in grazia, di poter essere seppellito in chiesa, ma «sotto i loro piedi», certo per umiltà, ma anche per assicurarli che egli li avrebbe «sostenuti» per sempre. Assieme a Francesco d’Assisi, suo contemporaneo, ha segnato di grazia il suo secolo in maniera straordinariamente feconda. Venne proclamato santo nel 1234, tredici anni dopo la morte
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[1] Sono le lezioni di antropologia filosofica tenute da lei nel 1933. Cf commento di Armando Rigobello in L’Osservatore Romano, 6-9-2001, p. 3.
Edith Stein nasce a Breslavia, capitale della Slesia prussiana, il 12 ottobre 1891, da una famiglia ebrea di ceppo tedesco. Allevata nei valori della religione israelitica, a 14 anni abbandona la fede dei padri divenendo atea. Studia filosofia a Gottinga, diventando discepola di Edmund Husserl, il fondatore della scuola fenomenologica. Ha fama di brillante filosofa. Nel 1921 si converte al cattolicesimo, ricevendo il Battesimo nel 1922. Insegna per otto anni a Speyer (dal 1923 al 1931). Nel 1932 viene chiamata a insegnare all’Istituto pedagogico di Münster, in Westfalia, ma la sua attività viene sospesa dopo circa un anno a causa delle leggi razziali. Nel 1933, assecondando un desiderio lungamente accarezzato, entra come postulante al Carmelo di Colonia. Assume il nome di suor Teresa Benedetta della Croce. Il 2 agosto 1942 viene prelevata dalla Gestapo e deportata nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau dove il 9 agosto muore nella camera a gas. Nel 1987 viene proclamata Beata, è canonizzata da Giovanni Paolo II l’11 ottobre 1998. Nel 1999 viene dichiarata, con S. Brigida di Svezia e S. Caterina da Siena, Compatrona dell’Europa.
ARTICOLI VARI
Edith Stein, dall’ateismo al martirio ad Auschwitz (da Famiglia Cristiana)
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Rifletti sulla povertà, umiltà e carità di Cristo Felice certamente chi può esser partecipe del sacro convito, in modo da aderire con tutti i sentimenti del cuore a Cristo, la cui bellezza ammirano senza sosta tutte le beate schiere dei cieli, la cui tenerezza commuove i cuori, la cui contemplazione reca conforto, la cui bontà sazia, la cui soavità ricrea, il cui ricordo illumina dolcemente, al cui profumo i morti riacquistano la vita e la cui beata visione renderà felici tutti i cittadini della celeste Gerusalemme. Poiché questa visione è splendore di gloria eterna, «riflesso della luce perenne, uno specchio senza macchia» (Sap 7, 26), guarda ogni giorno in questo specchio, o regina, sposa di Gesù Cristo. Contempla continuamente in esso il tuo volto, per adornarti così tutta interiormente ed esternamente, rivestirti e circondarti di abiti multicolori e ricamati, abbellirti di fiori e delle vesti di tutte le virtù, come si addice alla figlia e sposa castissima del sommo Re. In questo specchio rifulge la beata povertà, la santa umiltà e l’ineffabile carità. Contempla lo specchio in ogni parte e vedrai tutto questo. Osserva anzitutto l’inizio di questo specchio e vedrai la povertà di chi è posto in una mangiatoia ed avvolto in poveri panni. O meravigliosa umiltà, o stupenda povertà! Il Re degli angeli, il Signore del cielo e della terra è adagiato in un presepio! Al centro dello specchio noterai l’umiltà, la beata povertà e le innumerevoli fatiche e sofferenze che egli sostenne per la redenzione del genere umano. Alla fine dello stesso specchio potrai contemplare l’ineffabile carità per cui volle patire sull’albero della croce ed in esso morire con un genere di morte di tutti il più umiliante. Perciò lo stesso specchio, posto sul legno della croce, ammoniva i passanti a considerare queste cose, dicendo: «Voi tutti che passate per la via, considerare e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore!» (Lam 1, 12). Rispondiamo dunque a lui, che grida e si lamenta, con un’unica voce ed un solo animo: «Ben se ne ricorda e si accascia dentro di me la mia anima» (Lam 3, 20). Così facendo ti accenderai di un amore sempre più forte, o regina del Re celeste.Contempla inoltre le sue ineffabili delizie, le ricchezze e gli eterni onori, sospira con ardente desiderio ed amore del cuore, ed esclama: «Attirami dietro a te, corriamo al profumo dei tuoi aromi» (Ct 1, 3 volg.), o Sposo celeste. Correrò, né verrò meno fino a che non mi abbia introdotto nella tua dimora, fino a che la tua sinistra non stia sotto il mio capo e la tua destra mi cinga teneramente con amore (cfr. Ct 2, 4. 6). Nella contemplazione di queste cose, ricòrdati di me, tua madre, sapendo che io ho scritto in modo indelebile il tuo ricordo sulle tavolette del mio cuore, ritenendoti fra tutte la più cara.
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– Angelus, 15-8-2021.
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