Pensiero serale del 07-05-2024

Per il quarto giorno consecutivo scelgo di proporvi di riflettere sul brano del Vangelo di questa VI Domenica di Pasqua. Dopo avervi dato i commenti piuttosto recenti di autori di alto livello, stasera ricorro alle riflessioni di un sacerdote, forse per molti del tutto sconosciuto. Forse lo ricorderanno gli anziani come me. Era molto noto negli ultimi decenni del secolo scorso, dotato di un linguaggio inconfondibile, autore di un numero incredibile di libri, 135! Sono andato a rileggere un suo testo di quarant’anni fa e mi ha affascinato il commento al Vangelo di domenica scorsa.
Egli parla in prima persona, sembra fare un esame di coscienza. Io amo ripetere che pochi sanno fare davvero l’esame di coscienza. A un certo punto, ho capito che l’esame di coscienza non dovevo semplicemente leggerlo nelle sue parole, ma dovevo intenderlo come rivolto a me. Io ero e sono interpellato in prima persona da queste parole. Spero con tutto il cuore che vi siano utili.


«Nel vangelo che ci viene proposto in questa domenica – sempre tratto dal “discorso d’addio” di Gesù – c’è un martellamento inquietante di frasi che precisano il compito fondamentale del cristiano.
“Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio cuore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore” (vv. 9-10). […]
Gesù si propone come modello nel compito di amarsi gli uni gli altri: “come io vi ho amati”.
E Lui ci ha amati “sino alla fine” (Gv 13,1). Che è da intendere non soltanto in senso di fedeltà temporale, ma in termini di intensità, radicalismo, vorrei dire eccesso: fino al punto estremo, fino al massimo, fino a “dare la vita” per gli amici.
Il suo è stato un amore senza misura, “folle”.
Ho parlato di “martellamento inquietante” di queste frasi.
Personalmente, infatti, non mi sento affatto rassicurato, tranquillo.
La mia posizione, tra quelle due realtà implacabili – “come il Padre ha amato me” e “come io ho amato voi” ̶ è tutt’altro che comoda. Mi sento come schiacciato da esigenze tali da togliere il fiato.
Vorrei amare come voglio io, quando stabilisco io, e quanto decido io.
Invece quei due “come” mi proiettano in una misura divina, lontanissima dai miei orizzonti abituali, mi stanano dai miei programmi di equilibrio per impormi uno stile di follia, caratterizzato da eccessi incredibili.
Mi illudo di saper amare e di non aver bisogno di imparare. Credo che l’amore sia qualcosa di naturale, che va da sé.
Ma quando vengo raggiunto da quel provocatorio “come io vi ho amati”, comincio a sospettare che l’amore sia una materia piuttosto difficile da imparare, una possibilità ancora tutta da esplorare. E allorché ci si mette a scuola da quel Maestro, si arriva a rinnegare se stessi, dimenticarsi, perdersi.
Il Cristo ci ha amati non rimanendo al proprio posto, bensì abbassandosi, “svuotandosi”, diventando servo di tutti.
Io, invece, preferisco un amore che non mi costi troppo in termini di sacrifici, rinunce, spoliazione.
Vorrei amare rimanendo al mio posto, senza scomodarmi eccessivamente, senza privarmi di nessuna delle cose cui sono attaccato. Mi riesce estremamente ostico “uscire” da me stesso, dal mio egoismo, dai miei calcoli, dal mio comfort, dai miei programmi, dai miei interessi, per scendere fino all’altro, accorgermi della sua presenza, entrare nel suo problema, impossessarmi della sua sofferenza.
Voglio essere io a decidere chi devo amare, a stabilire chi è degno e chi non merita il mio interessamento.
E il Cristo mi fa capire che non devo escludere nessuno, neppure gli antipatici, neppure chi mi ha fatto del male.
Il Maestro insiste a ribadire il chiodo fastidioso che non devo essere io a “scegliere” il prossimo. Il prossimo si presenta come vuole, nel momento meno opportuno, nella maniera meno elegante; con le pretese meno discrete, spesso con una faccia ripugnante.
Beh, sì, sono disposto a dare qualcosa, specialmente del superfluo, dopo aver fatto bene i conti di cassa.
E il Cristo mi spiega che non c’è amore vero se non si arriva a “darsi”, ossia a dare se stessi più che delle cose.
E questo darsi, in certe circostanze, può significare “dare la vita per i propri amici”.
Allora mi nasce il dubbio di essere un analfabeta in fatto di amore, anche se questo termine ce l’ho in bocca di frequente. Altro che “più nulla da imparare”. Sono un principiante che ha chiamato amore ciò che era semplicemente egoismo verniciato di buoni sentimenti.
La croce del Cristo. Il segno dei chiodi. Il tradimento di un amico. La fuga e la vigliaccheria degli altri. Il perdono ai nemici. Di fronte a tali “illustrazioni”, il mio amore va in crisi, non oso più pronunciare quella parola.

“Tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi”.
Finalmente una frase che mi mette a mio agio, dopo quelle precedenti che scottavano.
Questo Cristo rivelatore di segreti celesti mi piace più del Cristo che ha la pretesa che io ami i miei simili come Lui ci ha amati.
In fondo, Gesù viene dall’alto. La sua condizione di Figlio fa sì che sia al corrente dei segreti del Padre.
L’idea di una religione che mi permetta di penetrare nei misteri più reconditi, di saperne più degli altri, di essere a parte di confidenze particolari, mi affascina.
Mi piace questo rapporto “privilegiato” col Cristo, che mi ammette nella cerchia ristretta degli “iniziati”, nell’élite di coloro che vengono messi a parte di rivelazioni sensazionali.
Signore, eccomi pronto ad ascoltare la tua Parola. Sto attento a non lasciarmi sfuggire neppure un brandello delle tue confidenze.
Avanti, Signore, parla. Sono disposto ad accogliere e custodire tutti i segreti che vuoi svelarmi.
Non tenermi più in sospeso. Siamo tra amici, l’hai detto tu.
“Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone, ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre… “
Aspetto con ansia questo “tutto”. “Tutto” quello che hai colto dalla bocca del Padre.
“Questo vi comando: amatevi uni gli altri”.
“Tutto” qui il segreto. Tutti i segreti ridotti a questo. Tutte le cose sono una cosa sola.
Dal Padre hai udito tutto questo. Nient’altro.
Ho capito, Signore.
Il tuo compito di Maestro si esaurisce nel rivelarmi, insegnarmi un’unica cosa.
L’unica cosa che non so.
L’unica cosa che non faccio.
L’unica cosa, però, per cui valga la pena di cominciare…» (PRONZATO ALESSANDRO, Pane per la Domenica. Commento ai Vangeli. Ciclo B, Gribaudi, Torino 1984, pp. 104-107).