Pensiero Serale del 4-11-2023

bibbia

La pagina del Vangelo di questa domenica è tra le più dure in assoluto e anche il commento di Fabio Rosini ci può davvero scuotere. Mi hanno colpito molto i rifermenti all’emiplegia, al matrimonio e alla vita consacrata. Mi permetto di consigliare di meditare tutto in un profondo silenzio, lasciandoci guidare dallo Spirito Santo.

XXXI domenica del Tempo Ordinario
Mt 23,1-12
«Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini». Non “molte” delle loro opere ma proprio “tutte”.
In un’epoca assillata dal “look”, dall’ “audience” e dai “like” possiamo capire il rischio di deteriorare la vita umana e la sua nobiltà in un allestimento da apprezzamento. Possiamo, come non mai, intender bene come succeda che perfino chi e chiamato a servire il Signore della gloria, degeneri fino a trasformarsi in uno schiavo della gloria insulsa che usa anche le cose più sacre come “app” del proprio ego, entrando così in uno stato drammatico di scissione personale, una sorta di divorzio fra ciò che si professa e ciò che si vive, fra il dire e il fare, un saper parlare di cose sublimi e un non saperle praticare, una condizione assurda come quella di chi descriva entusiasticamente un posto dove non è mai stato, dove non sa andare e neanche mai andrà.
Questa condizione non è né insolita né nuova. Tale emiplegia della vita cristiana è sempre stata una patologia ecclesiale tutt’altro che rara, è una diffusa povertà umana che sgorga dall’illusione di possedere la realtà mediante le parole, le chiacchere, quando il saper parlare delle cose diventa credere di averle sperimentate e magari autorizza addirittura a insegnarle agli altri, un saper bene la teoria come approccio sufficiente alla realtà.
Come può succedere questa cosa? Come può essere trasformata in una cosa tanto brutta e ingannevole quella che invece parte come la chiamata meravigliosa a essere strumenti di Dio e della sua salvezza? Il Signore ci mette sulle tracce del contrario di questa vita assurda con quel “Ma voi…” e parla di una vita da discepoli, da fratelli e, soprattutto, da figli. Questo è un dato importante: chi di noi non deve sentirsi toccato da quel rischio di “dire e non fare”? Chi è privo di questo difetto? Esso è la patologia di ogni matrimonio, il quale si fonda su parole meravigliose dette nel giorno delle nozze, parole poi svilite, dimenticate, non più credute e praticate, così come tale è la patologia di ogni consacrazione, che sgorga da parole sublimi professate un giorno davanti a un vescovo, e poi spesso trascurate, addomesticate, alterate in un tran tran di banalizzazioni e di compromessi, spesso non fatti consapevolmente, ma lasciati accadere.
Per salvarci da questa trasandatezza occorre ritrovare la radice di quella integrità auspicata fra le righe di questo Vangelo, ed essa è nel Padre, che ci rende figli e quindi fratelli, e nel vero Maestro che ci rende discepoli e quindi capaci di apprendere e crescere costantemente.
La radice di quella grottesca vita farisaica è risolvere l’enigma sommo della nostra esistenza con il materiale del proprio ego, ossia sopravvivere alla nostra insufficienza tramite i successi e i possessi, facendo del nostro ego il centro di tutto, più per paura che per cattiveria.
Fintantoché l’uomo, per grazia, non connetta con il Padre celeste la propria identità, allora la cercherà nel mondo, e, finché questa radice non irrorerà il suo essere, dovrà trasformare in competizioni le sue relazioni.
Dovrà essere visto, se non si sentirà custodito e guardato dal Padre; dovrà millantare intelligenza e assolutizzare le sue idee, se non trova l’unico maestro e non si fidi di lui.
Questo testo non fa solo una foto impietosa di tanti di noi, ma dischiude anche la via di uscita da questa miserabile condizione» (ROSINI FABIO, Di Pasqua in Pasqua. Commenti al Vangelo domenicale dell’anno liturgico A, San Paolo, Cinisello Balsamo 2022, pp. 218-220).

 Marcello De Maio